Le facce del nuovo capitalismo: la “zona pilota di libero mercato”
Lunedì 30 settembre è apparso sul Corriere della Sera un interessante articolo sul nuovo progetto neoliberista cinese, e cioè l’istituzione di una Zona Economica Speciale denominata China Pilot Free Trade Zone. L’esperimento, per adesso situato a Shanghai, è degno della massima attenzione perché definisce sinteticamente la direzione di marcia del nuovo assetto capitalista (qui il progetto esposto dal sito China Briefing).
Anzitutto, è un esperimento pilota, cioè viene testato nella città di Shanghai per poi essere esportato al resto del paese e del mondo se dovesse esserne confermata la validità. In una zona di 28 chilometri quadrati all’interno del porto cittadino, il governo assegnerà tutte le funzioni di amministrazione del territorio alle banche e alle istituzioni finanziarie. In estrema sintesi, appalterà tutti i settori di competenza esclusiva del governo (settori che sono di competenza di ogni governo e non solo di quello cinese), al mercato. Questi settori vanno dalla definizioni dei tassi di interesse e di cambio alla cultura, l’intrattenimento, la salute e l’istruzione, per non dire di vari settori economici di fatto appaltati già da anni ai mercati privati, come la logistica, i servizi finanziari, quelli professionali e tutta la filiera del commercio. In pratica, tutta l’organizzazione del territorio e della vita della popolazione sarà gestita tramite logiche finanziarie guidate dalle banche private presenti in questa Zona Speciale. L’esperimento vorrebbe dimostrare come una autoregolazione del mercato senza alcuna mediazione statale possa accrescere le possibilità produttive e di profitto, generando un sistema che si governi da se e che sia più efficiente.
Se qualcuno aveva ancora dubbi sulla natura “socialista” del governo cinese, questo esperimento dovrebbe chiarire quali sono le posizioni in campo. Nel 1979 proprio a Shanghai partì l’esperimento, esattamente come oggi tramite l’istituzione di una Zona Economica Speciale, della nuova forma di capitalismo che avrebbe dovuto “integrare” lo sviluppo socialista. Quell’esperimento venne poi esportato a tutto il resto del territorio cinese, eliminando ogni forma sostanziale di socialismo, e generando una forma nuova di accumulazione capitalista fondata sul più imponente flusso migratorio della storia, e cioè i 200 milioni di contadini che in questo decennio hanno spopolato le campagne dell’entroterra andando ad ingrossare le città-fabbrica della costa sud-orientale cinese. Quello che si vuole sperimentare in questo progetto, di durata triennale, rappresenta la sua logica conseguenza: se è possibile, una volta eliminato il socialismo, eliminare anche lo Stato quale attore principale dello sviluppo economico (non come attore principale della repressione, ovviamente). Capire dunque se il modello di sviluppo è pronto al passaggio coerentemente successivo rispetto all’impostazione neoliberista: dallo Stato debole all’assenza di Stato.
Il problema è che, mentre l’esperimento avviato nel 1979 avveniva in un contesto di assenza di economia di mercato, e dunque aveva validità solo nel contesto cinese, quello che si è inaugurato il 29 settembre di quest’anno è un esperimento globale in tutti i sensi. Mentre la Cina di allora era un paese “capitalisticamente arretrato”, oggi è all’avanguardia di quel processo e si propone come paese modello del nuovo sistema di sviluppo globale. Se fino ad oggi la direzione del processo di sviluppo economico del pianeta, almeno in occidente, era chiara, e cioè si procedeva verso una sostanziale scomparsa del ruolo dello Stato come attore economico e sociale, l’esperimento in questione dovrebbe certificarne il passaggio successivo, quello cioè della sua effettiva sostituzione con le strutture finanziarie private. E non solo nei campi direttamente economici, ma soprattutto in quelli in cui ancora lo Stato manteneva un presidio di sovranità, quali la cultura, l’istruzione “pubblica”, l’università, la ricerca, la sanità, i trasporti, ecc… E’ necessario essere chiari fino all’estremo in questo senso: il progetto prevede di appaltare alle banche l’organizzazione dell’istruzione, della sanità, della cultura più in generale. Oltre che delegargli tutto l’aspetto dell’organizzazione economica del territorio.
Il professor Chao Gangling, dell’Università di economia di Shanghai, ha subito dichiarato che “non è il PIL di 28 km quadri di Shanghai che conta, ma il valore dell’esperimento: se riuscirà, sarà allargato”. Oggi la Cina è il luogo dove il capitale compie i suoi esperimenti, dove procede per balzi forzando le situazioni storiche determinate e dove può permettersi di creare in vitro situazioni che altrove andrebbero gestite con altri strumenti. Se però il tentativo riuscisse, e cioè se la popolazione residente in questi 28 km quadrati dovesse essere disgregata e gestita efficientemente, allora questo progetto delineerà anche il nostro di modello di sviluppo. Se oggi vogliamo, da comunisti, leggere la riorganizzazione del capitale per il futuro, è alla Cina che dobbiamo guardare, ed è da quel modello che dovremo sviluppare le nostre analisi.
Il porto di Shanghai