Le condanne ai No Tav, tra strategia e “vendetta”

Le condanne ai No Tav, tra strategia e “vendetta”

 

I numeri della sentenza nel maxi-processo che ha chiuso il primo grado di giudizio per 53 imputati No Tav sono oggi cosa nota. 47 condanne, 145 anni comminati, 150 mila euro in risarcimenti, provvisionali e pagamento delle spese legali per le parti civili in causa (poliziotti refertati, sindacati di polizia, ministeri vari e la LTF – società franco-italiana che si occupa di meccanica di precisione ), oltre 6 ore di pantomima giudiziaria nell’aula-bunker delle Vallette, a Torino. Meno noto, ma sicuramente più degno di evidenza, il fatto che nelle ore successive alle condanne emesse dal dispositivo di Stato che da quasi 4 anni lavora in maniera instancabile sulla trama di questa sceneggiata, molti compagni e compagne sono scesi nelle strade della Valle dando vita ad un corteo spontaneo, ad una prima risposta che ha portato al blocco del nodo autostradale A32, costato denunce a 3 militanti accusati di resistenza aggravata, danneggiamento aggravato e interruzione di pubblico servizio.

Sui social network, nel viavai di solidarietà che ha riscaldato i cuori della lotta No Tav, abbiamo gridato alla vendetta di Stato, ribaltando le carte in tavola e mettendo sul banco degli imputati la capillare attività d’inchiesta giudiziaria che la magistratura torinese, in collaborazione con le procure di mezza Italia, ha messo in piedi per dare una giustificazione penale ed amministrativa ad un processo di ordinaria repressione politica.

Nel gergo comune l’associazione mentale che si fa con la parola “vendetta” rimanda ad un gesto, ad una reazione istintiva, dovuta ad un moto interiore che potremmo osare definire passionale, quantomeno non indotto da una valutazione a mente fredda e bocce ferme. Per certi versi, almeno negli scorsi anni, l’attività della magistratura che s’è presa carico delle vicende legate al movimento No Tav è stata per lunghi tratti una reazione cieca, di rabbia istintiva, tipica di chi sentendosi vulnerabile inizia a smanacciare nel buio, agitando la sua arma e talvolta sparando colpi a caso, nel mucchio. Pensiamo ad esempio ad alcuni provvedimenti che hanno visto notificare a centinaia di militanti accuse (le più disparate) che accomunavano quelli che gli stessi media erano soliti dipingere come due facce della stessa medaglia, ovvero il cattivo giovane antagonista e il romantico anziano della valle, entrambi presenti nelle lotte per la difesa del proprio territorio eppure posti su due piani di narrativi differenti: il primo in una dimensione negativa, spogliata della legittimità politica dalla violenza politica; l’altro, più spendibile e tollerabile, abita il limbo della legalità, della protesta e dei blocchi stradali, ma è reso innocuo da una determinazione che – si crede e si vuole far credere – è meno incisiva perché confinata in un ambito non violento. Niente di più assurdo, come ci ha insegnato la lotta dei valligiani. Nessuna divisione tra buoni e cattivi, nessuna dissociazione da nessun tipo di azione, diretta o meno, comunicativa o meno. È stato proprio a fronte di questa reazione giudiziaria che il collante politico che ha cementificato la determinazione in Val Susa ha forgiato con successo un’intera coscienza nazionale. Ci attaccano senza criterio, ci vogliono con le spalle al muro…rispondiamo uniti, allargando il consenso della lotta in tutta la nazione.

C’è invece un altro tipo di vendetta, quella che – come nelle migliori tradizioni cinematografiche – viene servita fredda, che è frutto di un calcolo certosino, di una pazienta ricerca del cavillo su cui provare ad innalzare un castello di carte nel deserto in bufera. Badate bene, non che quest’attività abbia un qualcosa di concreto, non che il sabotaggio di un generatore o una giornata di lotta tra le montagne (come fu quel 3 luglio 2011) possano essere paragonate all’omicidio in divisa che tante vittime ha mietuto negli ultimi anni, solo perché la condanna è pressappoco la stessa. Insomma, per quanto studiata a tavolino, questa vendetta fredda, questa sentenza di primo grado, non ci rassegna a vedere alcunché di esecrabile nelle lotte dei compagni imputati.

Ma a differenza di altre volte, e veniamo al punto, la reazione di Stato è modellata su una lotta combattuta non solo nelle aule dei palazzi di giustizia, ma anche sulla pelle dell’opinione pubblica, del consenso che questa può mostrare ad un’operazione sfacciatamente politica e difficilmente riconducibile nel solo binario giurisprudenziale.

Se la memoria non ci inganna, non si parlava di aula-bunker e di maxi-processo dai tempi in cui sul banco degli imputati figuravano militanti che avevano intrapreso la lotta armata. Processi sommari a chi mira a sovvertire le basi di uno Stato democratico, dopo che a lungo si è parlato di aggravanti vari e terrorismo: ecco cosa c’è scolpito nella testa di chi ogni giorno legge i quotidiani che straparlano della lotta No Tav. Nell’immaginario comune è stato introiettato a forza il tentativo di accostare la lotta No Tav ad esperienze politiche che hanno segnato il passo della lotta di classe fino a qualche decennio fa. E allora, anche simbolicamente, la maxi-sentenza del maxi-processo è figlia di un’accurata strategia che lavora a 360° non solo sul deragliamento della lotta ma anche sul consenso che, forse inaspettatamente per la controparte, aveva riscosso su tutta la penisola. Processi di eguale importanza, di eguale ingiustizia e di altrettanta (se non maggiore) visibilità politica – Genova su tutti – non erano stati giocati su un piano così simbolico: in quel caso, al contrario, si era giocato sulla sproporzione della pena per un reato contestato, quella di devastazione e saccheggio, montato ad hoc per arrivare ad una condanna a dir poco esemplare. Come ricordavamo (luglio 2012) in occasione della sentenza della Cassazione sul G8 genovese,

«la “giustizia” non è, ovviamente, uno strumento “terzo” e imparziale, ma un concetto determinato dai rapporti di forza esistenti in un dato momento e in una dato contesto; è quasi inutile ricordarlo, ma nel corso degli anni il conflitto di classe ha espresso ben altri livelli di scontro e di violenza politica, pagando – in proporzione – decisamente meno dei compagni arrestati in questi anni. Se oggi il potere decide di calcare la mano, andarci pesante e comminare pene assurde come se nulla fosse, non è certo per la cattiveria individuale del giudice di turno, ma più precisamente perché oggi la giustizia – e dunque la politica – possono permettersi cose che in anni precedenti non potevano permettersi. Proprio perché i rapporti di forza non glielo consentivano».

La sentenza di primo grado di giovedì non fa eccezione, e si inserisce a pieno titolo in questo discorso. C’è anzi qualcosa di più grave in relazione ai dispositivi di pena studiati per quelle condanne durissime: l’art. 339 c.p., l’aggravante del reato di resistenza (come lanci di oggetti, resistenza di gruppo, etc.) che dispone l’innalzamento della condanna fino a 15 anni, “giustificando” quindi le assurde condanne che abbiamo visto comminare ai nostri compagni e compagne. Un linea di condotta già sperimentata a suo tempo (da 5/6 anni) nei laboratori-stadi dove fu applicata per la prima volta. Affinata negli anni e oggi pronta per prove di forza come quella di Torino.

Nessuno si è stupito, quindi, di fronte a questa macelleria giudiziaria. Nessuno però, con altrettanta fermezza, s’è tirato indietro o ha ritratto la mano che lotta. L’assemblea di mercoledì e il conseguente lancio di una grande mobilitazione No Tav per il 21 febbraio a Torino sono senz’altro la risposta migliore da cui ripartire.