Le cariche operaie e quelle precarie
Le cariche della polizia in piazza Indipendenza a Roma contro gli operai AST di Terni, oltre che essere indiscriminate, violente, ingiustificate, ci dicono politicamente qualcosa in più. In fondo, niente di diverso – semmai decisamente più contenuta – della violenza che accompagna le manifestazioni dei movimenti sociali, dei precari, delle lotte ambientali, di quelle per il diritto all’abitare e via dicendo. Eppure, la visibilità, il clamore, la quantità di dibattito che hanno generato le rende immediatamente protagoniste dello scontro politico. Non di quello poliziesco, non della gestione tecnico-amministrativa della radicalità di piazza, ma del piano politico. Qualche giorno dopo le cariche (ieri), il capo della polizia Alessandro Pansa subito si affrettava a diramare nuove regole di comportamento per la gestione degli eventi di piazza, con l’obiettivo di limitare al minimo il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine. Tutto per una carica di venti secondi contro cento manifestanti. Decisamente strano in anni di cariche sommarie, terroristiche, vandaliche contro cortei di decine di migliaia di persone, cariche coadiuvate da mezzi di guerra, sparatorie di lacrimogeni come fossero proiettili, idranti, gas urticanti, e così via. Perché questa evidente disparità? E’ qui il cuore della questione politica che la reazione a quelle cariche evidenziano.
Per quanto scomparsa da tempo ogni forma organica di rappresentanza politica del mondo del lavoro, le ragioni di quella determinata composizione sociale (i lavoratori dipendenti salariati delle grandi aziende manifatturiere, così come i lavoratori della pubblica amministrazione) riescono ancora ad attivare un feedback politico tale da portare le ragioni delle singole vertenze su un piano politico generale. La violenza contro i manifestanti non è diversa se questi sono precari od operai a tempo indeterminato, ma assume maggiore valore politico perché questi ultimi trovano chi da valore politico alle loro ragioni (che non significa valore politico condivisibile, sia chiaro). Per quanto il PD sia coerentemente il partito del capitale transnazionale, ancora al suo interno sopravvivono settori politici legati a quella composizione sociale là. Vuoi per interessi elettorali, per retaggi culturali, per legami sindacali o per spirito di contraddizione, determinate vertenze sindacali o sociali riescono ancora a produrre una discussione politica all’interno dei palazzi del potere, una discussione che non relega la singola vertenza a fatto meramente sociale, trasportandolo sul piano dei rapporti di forza generali.
Questo processo virtuoso manca completamente alle dinamiche conflittuali del precariato. Per quanto centrali economicamente, per quanto radicali socialmente, le forme di lotta precarie o “spurie” ancora non riescono a trovare una loro rappresentanza politica, che riesca a portare le varie vertenze allo scontro politico. Rimanendo sul piano sociale, ogni vertenza “fa storia a sé”, non ha la possibilità di generalizzarsi spostando i rapporti di forza. Cariche come quelle dello scorso 29 ottobre sono all’ordine del giorno di ogni corteo per la casa, sono cioè la quotidianità a Roma. Una violenza repressiva che viene costantemente ignorata dai media, banalizzata dal mainstream amministrativo, o trattata come mero fenomeno d’ordine pubblico, quasi fisiologico, ma che certo non può interessare il mondo della politica “ufficiale”. Potremmo dire che questo disinteresse è ricambiato in pieno dal mondo precario, per cui nessun ritorno elettorale potrebbe prodursi oggi per un eventuale sponda politica “esterna”. Ma in assenza di questo o i movimenti antagonisti costruiscono la propria sponda politica “ufficiale” capace di portare le loro ragioni nell’alveo dello scontro politico, o la trovano fuori da sé, e questo oggi è molto più difficile (e forse deleterio) di qualche decennio fa. Tertium non datur, e la mobilitazione politica seguita alla repressione degli operai dell’AST lo dimostra meglio di tante parole. Chi ha rappresentanza riesce ad imporsi nel dibattito pubblico, quindi ad influenzare le scelte del potere proporzionalmente alla propria capacità conflittuale; chi non ce l’ha, è destinato all’irrilevanza o, nel migliore dei casi, all’estemporaneità.