L’autunno freddo e noi

L’autunno freddo e noi

Non era mai accaduto, dal secondo dopoguerra ad oggi, che il Pil italiano crollasse del 10% nel giro di qualche mese. E questo a soli pochi anni da una crisi, quella iniziata nel 2008, da cui il paese già stentava ad uscire. Tradotto in soldoni questo significa che, se anche il prossimo anno dovesse verificarsi il cosiddetto “rimbalzo” del 5%, come auspicano gli osservatori più ottimisti, ci ritroveremmo comunque con un prodotto interno lordo inferiore del 4% a quello di 13 anni fa.

Sia ben chiaro, non siamo dei feticisti di questo indice, il Pil per l’appunto. Ciò che poi davvero conta, almeno dal punto di vista dei subalterni, dovrebbe essere come poi il reddito nazionale viene ripartito, la quota parte che viene assorbita da salari e stipendi piuttosto che dai profitti, le ricadute occupazionali e la qualità del lavoro che viene creato. E anche a tal proposito tutte le analisi quantitative prodotte in questi anni parlano chiaro: da almeno quattro decenni a questa parte la polarizzazione sociale non ha fatto che aumentare, i padroni sono diventati sempre più ricchi mentre i lavoratori hanno continuato ad impoverirsi. Si tratta ovviamente di valori “relativi”, all’interno di un contesto economico che comunque, anche se lentamente, complessivamente cresceva, eppure questa tendenza non ha mai accennato a rallentare, neppure nei più recenti anni della crisi, anzi, piuttosto si è approfondita fino ad imporre all’intera classe dei salariati una prospettiva di “aspettative decrescenti”. Per cui ormai è diventato quasi pacifico constatare che i propri figli vivranno in un quadro di diritti, tutele e mobilità sociale peggiore di quello di cui poteva godere la generazione precedente.

A fronte di tutto questo, almeno alle nostre latitudini, la conflittualità sociale che qualcuno immaginava potesse esplodere grazie all’innesco delle contraddizioni economiche ha raggiunto invece il livello più basso della storia di questo paese. Non solo, contestualmente abbiamo anche assistito alla scomparsa dalla scena politica dell’estrema sinistra in ogni sua possibile declinazione. Basta guardare indietro, magari anche solo fermandosi a quindici o vent’anni fa, per rendersi conto di quanto questo fenomeno sia stato repentino, e per alcuni aspetti imprevedibile. Si tratta di una questione che meriterebbe assolutamente un “di più” di ragionamento collettivo, anche perché altrimenti saremo mai in grado di ripartire, ma che in questo momento esula dalle finalità di queste righe.

Quello che ci preme sottolineare è piuttosto come la crisi sociale, innescata dalla crisi pandemica, non si sottragga (almeno per il momento) a questo schema. Nonostante le “aspettative” che pure vi venivano riversate un po’ da tutti durante il lockdown, questo autunno ci si prospetta tutt’altro che caldo, e il segnale del voto stabilizzante delle recenti elezioni regionali è abbastanza chiaro in tal senso. Le ragioni, come sempre, sono molteplici anche se convergenti, e vanno ricercate, ad esempio, nell’incapacità soggettiva di far leva su alcune contraddizioni del sistema che pure erano clamorosamente emerse durante quei mesi. Pensiamo ad esempio alla questione della Sanità e ai guasti della privatizzazione e del pluriennale definanziamento del sistema sanitario pubblico che hanno amplificato a dismisura gli effetti della pandemia. Oppure al fatto che mentre metà della popolazione veniva chiusa in casa un’altra metà, quella “indispensabile” per continuare a macinare profitti, veniva comunque costretta al lavoro in condizioni insalubri. Oppure ancora alla scuola, e alla negazione del diritto all’istruzione per milioni di ragazzi che a tutt’oggi frequentano istituti con carenze di orgnaico e di srutture.

Per certi aspetti ha pesato anche (e molto) la sottovalutazione della capacità di “diluizione della crisi” messa in campo dal governo che, almeno per il momento, ha in parte calmierato l’ansia di ristrutturazione della Confindustria bloccando temporaneamente i licenziamenti e mettendo in campo alcune misure di sostegno al reddito che, per quanto insufficienti, hanno comunque sortito i loro effetti. D’altronde, com’era più che prevedibile, i primi a veder evaporare il proprio posto di lavoro (oltre 500mila) sono stati quei segmenti di proletariato da sempre socialmente e politicamente afoni. Gli “invisibili” e i “senza voce”, per lo più giovani e donne, a cui non è stato rinnovato il contratto a termine, le finte partite iva che hanno visto dileguarsi l’unico “committente” per cui lavoravano o quel proletariato dei servizi che spesso nemmeno sa cos’è un contratto.

C’è però anche un dato che potremmo definire “oggettivo” e che contribuisce a disegnare i contorni della condizione in dovremmo provare a fare politica nei prossimo mesi, ed è la paura. Non parliamo solo del timore per la propria salute, a fronte di un virus che è stato tutt’altro che debellato, nonostante i proclami trionfalistici da primi della classe di solo qualche mese fa, ma soprattutto la paura di poter perdere anche quel poco di “sicuro” che si ha. Perché alla fine dei conti per chi campa di salario è sempre meglio un lavoro di merda con un salario di merda piuttosto che la disoccupazione, e solo chi può godere dei vantaggi dell’astrattezza non lo capisce. Poi, d’altro canto, sappiamo bene come la paura, al contrario della rabbia, sia da sempre un’emozione che paralizza e che rende docili, un sentimento che le classi dominanti hanno da sempre provato a sfruttare, soprattutto in mancanza di alternative politiche credibili capaci di indicare prospettive diverse.

Sappiamo anche però che, per quanto procrastinati nel tempo, tra nemmeno troppo tempo i nodi verranno al pettine e quei processi di ristrutturazione produttiva che adesso stanno solo nei desiderata di Bonomi troveranno applicazione, perché per il capitale quello è l’unico modo per uscire dall’empasse, e a quel punto essersene stati buoni e remissivi servirà a ben poco. Proprio per questo crediamo che siano estremamente importanti e che vadano valorizzati alcuni segnali di controtendenza che provengono dai settori più combattivi dei salariati, a partire dalla partecipata assemblea di Bologna dello scorso 27 settembre fino al tentativo di articolare quel piano di organizzazione e coordinamento delle lotte anche a livello locale. Uno sforzo a cui, per quanto piccolo, non mancherà il nostro contributo. L’appuntamento per chi sta a Roma è per domenica prossima, dalle 11 nella sede del SiCobas in via infessura 12.

Costruiamo l’assemblea regionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi!