L’anticomunismo turistico della Lonely Planet e qualche consiglio per le vacanze

L’anticomunismo turistico della Lonely Planet e qualche consiglio per le vacanze

Varsavia è una delle città più sorprendenti che ci sia capitato di visitare. Certo non stiamo parlando di una bellezza “standard”, da paesino medievale o da metropoli in cui il corso della storia abbia sedimentato la sua urbanizzazione. La bellezza di una città che ha sessant’anni di vita non può essere certo apprezzata attraverso canoni pensati per altri contesti. Nonostante ciò, e nonostante il palese tentativo della Lonely Planet di disincentivare la visita della città, ci è rimasta negli occhi l’immagine di una vera e propria opera d’arte socialista, sebbene gli obbrobri architettonici seguiti al regime change del 1989 stanno velocemente adeguando il contesto urbano della capitale al modello prefabbricato delle downtown statunitensi.

Pochi altri contesti urbani riescono ad esprimere il senso dell’ingegneria e dell’architettura socialista come la capitale polacca, territorio di sperimentazione costruttivista e funzionalista determinato dalla sua completa distruzione del 1945. Varsavia infatti, com’è noto, venne rasa al suolo alla fine della seconda guerra mondiale. Meno noto il fatto che perse più di metà della propria popolazione – 800.000 abitanti su 1.400.000 – e che venne prese la decisione, poi per fortuna annullata, di spostare la capitale polacca in un’altra zona, vista l’impraticabilità della zona densa di rovine. A dispetto di ogni (apparente) razionalità, le autorità socialiste del paese presero la decisione di ricostruire totalmente la capitale, e nel ricostruirla agirono in due modi distinti. Quello che era il centro storico cittadino, d’impostazione medievale, venne completamente ricostruito tale e quale a prima dei bombardamenti. Il risultato è stato una delle maggiori opere di ricostruzione urbana mai prodotte, addirittura sancito dall’ingresso del centro storico fra i patrimoni dell’UNESCO nel 1980. Difficile comprenderlo leggendo poche righe; impossibile rendersene conto basandosi sulle guide turistiche, in primo luogo sulla già citata Lonely Planet. Impressionante invece la visione dal vivo, dove un intero (e anche abbastanza grande) centro medievale è stato ricostruito interamente basandosi su fotografie e stampe dell’epoca e sui quadri secenteschi raffiguranti le storiche piazze.

Sul resto del territorio cittadino, completamente disintegrato, venne dato avvio ad un’opera di vasta riorganizzazione urbanistica modellata sul paradigma dell’architettura socialista: ampi viali a prospettiva profonda, dove a ridosso del centro storico (e non in anonime periferie) vennero costruite serie di palazzi residenziali per la popolazione lavoratrice insieme a tutti i servizi necessari, affiancati ai palazzi di rappresentanza politica e a strutture artistiche. Il tutto in un unico contesto urbano, segnato dalla fusione dell’ambito lavorativo, quello residenziale e quello politico. E questo lo diciamo al di là di come l’esperimento socialista polacco sia stato nella realtà e di come sia andato a finire storicamente. Ma l’idea politica alla base dell’opera architettonica e urbanistica conferma ancora oggi, soprattutto oggi, la distanza siderale tra il modello metropolitano capitalista e quello socialista. Dove in quello domina l’esclusione sociale e la stratificazione classista, in quello socialista predomina la comprensione degli elementi sociali in un unico contesto, dove non esistono (o non esistono in teoria) quartieri per ricchi e quartieri per poveri; luoghi della produzione e luoghi per dormire; siti (e prezzi) per turisti e quelli per gli autoctoni. 

Nonostante questa bellezza ingegneristica pervadesse i nostri occhi e i nostri ragionamenti, la misera guida che abbiamo avuto la sventura di comprare s’impegnava a disincentivare in ogni modo la nostra visita alla città. Un impegno politico e non artistico muove l’intento della Lonely Planet a demolire qualsiasi elogio dei paesi ex-socialisti, esaltandone le virtù paesaggistiche o culinarie e attaccando tutto ciò che possa essere stato pensato e costruito tra il 1945 e il 1990.

“La caotica Varsavia non è una città attraente[…]La prima impressione appena scesi dal treno potrebbe essere negativa”. Questo l’incipit della parte riguardante la capitale polacca. Non male, per una guida che dovrebbe invogliare il lettore a visitare i luoghi che descrive, al limite ingigantendo i pregi e nascondendone i difetti. Ma è un crescendo rossiniano, con punte di malcelata incoerenza tra l’oggettività di ciò che si descrive e l’intento politico della guida.

Anzitutto, la guida punta a descrivere solo il centro storico, invitando il viaggiatore a tenersi ben lontano dal resto della città, terribilmente “compromessa dall’architettura stalinista” (compromessa poi da cosa non si capisce, visto che la città nel 1945 semplicemente non esisteva più). Un intero capitolo della guida poi definisce Varsavia “una fenice che rinasce dalle sue ceneri”, dove per ceneri la guida non intende le macerie provocate dal nazismo ma il lungo interregno socialista tra la Polonia storica e quella moderna post-1990. Andando oltre, l’acme anticomunista raggiunge vette inarrivabili: “l’eredità comunista colpisce certo di meno. Fino a pochi anni fa, il centro cittadino era un insieme di strutture staliniane, squadrate come bunker, e di edifici altrettanto squallidi di un’epoca successiva, mentre i sobborghi, che ospitavano la maggior parte degli abitanti di Varsavia, erano composti quasi esclusivamente da anonimi edifici di cemento prefabbricati. Lo skyline della città è ancora deturpato di brutti palazzi molto alti(!), ma le cose sono migliorate in modo significativo a partire dal 1989(!!). Torri di nuova costruzione di vetro e acciaio hanno cominciato a rompere la monotonia del paesaggio urbano, e le periferie cittadine si stanno riempiendo di gradevoli ville e case d’abitazione”.

La faziosità del passaggio segnalato, uno dei molti presenti nella guida, lascia davvero pensare. Una brutta città di “palazzi alti” sta cambiando velocemente volto grazie alla costruzione di “torri di nuova costruzione” in vetro e acciaio. Impressionante è l’ideologia sottostante tale visione del mondo. Un intera città, New York, viene celebrata da un secolo per la presenza dei suoi “palazzi alti”, tutti invariabilmente in cemento prefabbricato, mentre uno skyline per certi versi simile viene accusato di deturpare il volto della città. Esattamente per gli stessi motivi attraverso cui viene celebrato il volto della città nordamericana. Certo, New York – e le metropoli occidentali – vengono costantemente esaltate da un flusso mediatico, cinematografico e letterario che città come Varsavia non possono avere. Ciò che ci sembra naturale nella bellezza di una città occidentale viene relegato a stranezza incomprensibile in città fuori dal mainstream.

Ma il pervicace anticomunismo della guida statunitense lascia comunque riflettere. Esemplare, in questo caso, anche la descrizione di una fabbrica socialista a Cracovia. Agli inizi degli anni ’50 venne edificata nella periferia cittadina una nuova acciaieria. Questa non venne lasciata a se stessa, prototipo di cattedrale nel deserto tipico di certe periferie industriali europee, ma venne costruito, tutto intorno alla fabbrica, un intero quartiere operaio, con annessi servizi di ogni tipo tali da impedire la dinamica del quartiere-dormitorio. Nel giro di pochissimo tempo, l’acciaieria garantì la metà della produzione di acciaio (e ferro) dell’intera Polonia, creando un nuovo gigantesco quartiere operaio di 200.000 abitanti.

Un tentativo dunque industrialmente riuscito, tant’è che con il crollo del socialismo la fabbrica non venne dismessa, ma continuò la sua produzione fino a quando, sulla scia delle privatizzazioni degli anni novanta, venne acquistata dalla multinazionale statunitense Arcelor-Mittal, leader mondiale nella lavorazione dell’acciaio. Insomma, un esperimento industriale vincente anche per le caratteristiche produttive occidentali. La costruzione di una fabbrica in una città medievale deve però aver inorridito i curatori della guida turistica, tanto da esprimersi in termini a dir poco indignati. “Il regime comunista del dopoguerra costruì deliberatamente l’acciaieria di Nova Huta a Cracovia per inserire nel tessuto urbano una sana componente operaia[…]Gli urbanisti non si curarono del fatto che Cracovia non possedesse giacimenti di carbone[…]Il sogno comunista, tuttavia, non si avverò nel modo previsto”. Inutile specificare che il “sogno comunista”, come lo definisce la guida, in realtà si realizzò totalmente, visto che la fabbrica divenne la principale della città e dello Stato polacco, e che il quartiere divenne una vera e propria città, oggi incorporata nella città di Cracovia. Ma risulta evidente come il tentativo di rendere economicamente autonomi e produttivi determinati territori si scontri con il tentativo neoliberista di riservare parti di territorio alla sola economia turistica e dei servizi, generando quella desertificazione industriale che sta avvenendo, ad esempio, in Italia, terra che si vorrebbe libera dalla produzione e trasformata in parco giochi per turisti ricchi e in futuro per i flussi turistici cinesi. Una ricchezza che dipenderebbe in realtà da una domanda esterna, e che dunque non genererebbe alcuna ricchezza concreta per la popolazione lavoratrice interna, costretta a quel punto ad adattarsi alle richieste di un mercato non dipendente dalla linee politiche statali.

Al termine del nostro viaggio non possiamo che consigliare una visita in Polonia e in particolare alla sua capitale, Varsavia. Un esperimento urbano senza precedenti e che ci riporta ad un passato in cui le teorie urbaniste per lo sviluppo metropolitano erano parte integrante di un pensiero più generale di liberazione sociale delle classi lavoratrici. Allo stesso tempo non possiamo che consigliare vivamente un boicottaggio delle guide Lonely Planet, soprattutto di quelle riguardanti paesi ex-socialisti, visto il sostrato ideologico che le pervade e le orienta nelle loro descrizioni turistiche.