La tortura e l’equivoco delle responsabilità

La tortura e l’equivoco delle responsabilità

L’emissione delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Appello di Perugia, lo scorso 15 gennaio, ha certificato che il compagno Enrico Triaca è stato sottoposto a tortura, dopo essere stato arrestato (il 17 maggio 1978), ha suggerito a Elisabetta Teghil alcune riflessioni, che proponiamo qui sotto.

 

di Elisabetta Teghil

 

È merito del collettivo Militant essersi fatto carico di affrontare in maniera organica il problema della tortura in questo paese e di aver squarciato il velo di silenzio che  avvolge tutti/e quelli/e che l’hanno denunciata.

Il sistema si serve di due livelli: parlare della tortura è di fatto vietato, è un tabù che non bisogna violare; però, contemporaneamente, se ne deve sapere dell’esistenza, se ne deve bisbigliare, come monito per chi avesse intenzione di ribellarsi.

E di questo progetto sono parte attiva e fondante soprattutto quelli che, nella vulgata corrente, dovrebbero essere deputati a raccontarla – i media – e a sanzionarla, cioè l’organizzazione giudiziaria.

La tortura non termina quando il torturato/a esce dalla stanza del supplizio; questi, poi, è di fatto obbligato/a a stare in mezzo agli altri come se niente fosse successo, deve vivere con gli indifferenti, con quelli che non vogliono ascoltare perché preferiscono avere l’alibi di non sapere, con i magistrati che non vedono le sue condizioni fisiche.

Non deve turbare i loro pudichi occhi e le loro caste orecchie, perché le sue accuse “sono frutto di malevolenza” e deve nascondere le tracce psichiche e fisiche della tortura perché scombina la loro coscienza, le loro carriere e la ritualità in cui sono immersi, ognuno nel ruolo che si è ritagliato.

Oltre al corpo vogliono anche l’anima. Vogliono che non ne parli come prova della sua sottomissione, deve vivere come se niente fosse e, magari, allontanarsi dalle sue idee, le stesse idee per cui l’hanno torturato/a.

Ci viene in mente quella militante delle BR che, quando fu interrogata dal magistrato, denunciò le sevizie a cui era stata sottoposta e si sentì dire “troppo poco”. Ma la tortura non è un martirio a cui vengono sottoposti soltanto i prigionieri/e politici/che: ne sanno qualche cosa anche tutti quelli/e che vengono definiti “delinquenza comune”. Nella questura di Bologna, per anni, i tossicodipendenti e gli spacciatori sono stati sottoposti a sevizie e nessuno, bontà sua, se ne è accorto.

Stefano Cucchi, portato all’udienza di convalida con gli occhi tumefatti e il volto gonfio, ha incontrato un magistrato “semi cieco” che non ha visto i segni delle violenze subite. I casi  di violenze perpetrate nei confronti dei fermati/e e arrestati/e sono così tanti e dolorosi che richiederebbero pagine e pagine.

Però ci sono quelli/e che usano distinguo, quelli/e che giustificano la tortura con motivazioni, di volta in volta, diverse ed infine, ultima frontiera, ci sono quelli/e che – impregnati di cultura socialdemocratica – vorrebbero “la tortura dal volto umano”, magari con l’assistenza di medici e psicologi.

La campagna di Militant, poi, oltre alle censure a cui è stato sottoposta, ha sollecitato in alcuni il bisogno di prendere le distanze dalla lotta armata.

Allora, mettiamola così: per rimanere nei paesi occidentali, prendiamo le distanze dalle Black Panthers, dall’Eta e dall’IRA? Che facciamo, avalliamo le torture nei loro confronti? Spero di no! Facciamo sfoggio di cultura e leggiamo le differenze fra le loro scelte e quelle fatte in Italia? Apriamo la strada alla giustificazione della loro repressione e non solidarizziamo con loro perché gli afroamericani praticavano il separatismo, perché l’Eta ha aspirazioni indipendentiste e l’Ira ha basi confessionali? E perché (ultimo alibi, dato che di questo si tratta) non mettono la classe operaia al centro dei loro interessi?

Nella lettura di alcuni la lotta armata sarebbe stata la causa della repressione del movimento degli anni ‘70 in Italia, perciò, paradossalmente, la responsabilità del 7 aprile non sarebbe più della magistratura e della polizia, ma di chi ha fatto la scelta della lotta armata.

Bel risultato! Si assolvono i responsabili e si incolpano i compagni.

Con lo stesso metodo la repressione delle aspirazioni del popolo basco all’indipendenza e di quello irlandese alla riunificazione sarebbe colpa dell’Eta e dell’Ira!

Noi siamo dalla parte dell’Ira e dell’Eta.

La lotta armata in questo paese è stata un’articolazione  della lotta di classe che si può condividere o meno ma appartiene alla storia del movimento operaio. Invece di unirsi al coro denigratorio e demonizzante che ha prodotto e produce articoli, scritti, programmi televisivi, eventi cinematografici palesemente falsi e manipolatori, si dovrebbe smettere di infilare la testa sotto la sabbia e cominciare a parlarne con onestà intellettuale e con chiavi di lettura di classe.