La risultante

la mia patria

A meno che non ci si voglia convincere che l’intera cittadina di Rosarno sia oggi popolata da seguaci del Ku Klux Klan, è evidente che i recenti accadimenti calabresi ci costringono ad alcune (amare) riflessioni. Soprattutto se si considera il fatto che proprio quella parte di Calabria è stata in passato teatro di durissime lotte bracciantili e bacino di un’immigrazione diretta verso le fabbriche del Nord Europa prima, e dell’Italia settentrionale poi. Oltre ad esprimere piena ed incondizionata solidarietà alla ribellione dei lavoratori migranti, dobbiamo dunque interrogarci su cosa abbia spinto dei lavoratori italiani a dar vita ad un vero e proprio pogrom razzista. Anche perché la versione fornita dai media in questi giorni, ovvero che tutti i rosarnesi, o quasi, siano in realtà massa di manovra di qualche capobastone della ‘Ndrangheta, per quanto assolva almeno in parte la sinistra dalle proprie responsabilità, ci convince poco. La nostra sensazione è che la guerra tra poveri scoppiata in Calabria sia solo la prima di altre drammatiche manifestazioni di quella lotta nella classe a cui saremo costretti ad assistere se non sapremo metter mano nelle contraddizioni aperte da oltre un trentennio di trasformazioni sociali. Quest’anno ricorrono due anniversari “tondi” per la storia del movimento operaio, due eventi che gli storici colti chiamerebbero “periodizzanti”. Date divenute talmente simboliche da poter sancire un prima e un dopo. Il 7 luglio saranno passati 50 anni dall’eccidio di Reggio Emilia e dai moti delle “magliette a strisce” che segnarono la ripresa del conflitto sociale dopo un decennio di sconfitte operaie. Mentre il prossimo 14 ottobre ricorreranno invece 30 anni da quella marcia dei quarantamila che sancì la fine dell’occupazione della FIAT. In mezzo, un ciclo di lotte che arrivò a mettere in discussione i rapporti di forza tra le classi in questo paese come mai era accaduto prima di allora. E fu proprio per sconfiggere quell’insorgenza operaia e ristabilire il dominio del Capitale sul Lavoro che la borghesia italiana, sospinta anche da una crisi decennale, ristrutturò radicalmente l’intero apparato produttivo destrutturando così la composizione sociale della classe e prosciugando l’acqua in cui nuotavano i pesci delle organizzazioni proletarie, tanto quelle rivoluzionarie che quelle riformiste. La nuova collocazione dell’Italia all’interno della divisione del lavoro internazionale, la progressiva costruzione di una mercato del lavoro planetario capace di mettere in diretta competizione proletari di paesi differenti e l’incedere della cosiddetta “globalizzazione” hanno poi contribuito al resto e fatto sì, tra le altre cose, che l’Italia da paese esportatore di manodopera ne divenisse importatrice. Non aver compreso per tempo queste trasformazioni, non averne indagato la portata e previsto i possibili sviluppi, ma soprattutto non aver avuto la capacità di spiegare alla propria gente quanto stava accadendo sono una delle maggiori colpe della sinistra tutta, nonché causa della improvvisa normalizzazione di quella che un tempo veniva definita l’anomalia italiana. E così il conflitto da “verticale” si è fatto via via “orizzontale”. Non più proletari contro borghesi, non pià lotta di classe ma lotta nella classe: lavoratori del privato contro quelli del pubblico, precari contro garantiti, giovani contro pensionati, italiani contro extracomunitari… Ovviamente per amor di sintesi stiamo schematizzando in maniera esasperata processi ben più complessi, ma proprio la questione dell’immigrazione, nella sua drammaticità, è forse il paradigma più esplicito dei ritardi e dell’inadeguatezza di una sinistra che forse proprio per questo motivo risulta ancora in larga parte “monocromatica” e che ha preferito quasi sempre adottare un atteggiamento pietistico, interclassista e paracattolico piuttosto che assumersi la responsabilità di dire a chiare lettere ai lavoratori italiani che l’immigrazione è un fenomeno inarrestabile, e che chiunque dice il contrario oltre ad essere razzista è anche un bugiardo. Un processo che, se ci permettete il parallelismo, potremmo definire osmotico. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la biochimica sa che due soluzioni con concentrazioni differenti, separate da una membrana semipermeabile, tendono inevitabilmente a raggiungere la stessa concentrazione e che la membrana, impedendo ai soluti di migrare, fa sì che sia la soluzione a spostarsi da una parte all’altra della stessa. Maggiore poi sarà la differenza di concentrazione, maggiori saranno le forze che entreranno in campo. Ora se al posto dei soluti mettiamo i capitali e le risorse del pianeta, se al posto della soluzione mettiamo la forza lavoro e se al posto della membrana mettiamo i confini nazionali, la metafora diviene chiara e inequivocabile. Il lavoro in un paese occidentale, per quanto prossimo alla schiavitù, garantisce mediamente ad un migrante un aumento di 15 volte del reddito rispetto a quello percepito nel proprio paese d’origine, ma soprattutto diminuisce di 16 volte la mortalità infantile dei propri figli. Motivazioni talmente forti da sopravvalere (giustamente) ogni legge o provvedimento xenofobo che quindi, per quanto si propongano di impedire l’arrivo di immigrati, non potranno che essere destinati al fallimento ottenendo come unico risultato (che è poi quello che realmente vogliono i padroni) quello di aumentare il livello di clandestinità, e quindi di ricattabilità, della forza lavoro migrante che verrà così spinta a vendersi ad un prezzo inferiore e a non reclamare diritti. Il che si tradurrà inevitabilmente in minori salari e minori diritti anche per i lavoratori occidentali. La sola strada percorribile dunque è quella della rivendicazione di salari e diritti uguali per tutti, indipendentemente dal passaporto che si ha in tasca. Ma tutto questo la sinistra “istituzional-radicale” non lo fa e non lo dice, impegnata com’è in faccende ben più “importanti”. Come ad esempio piroettare in quell’osceno balletto a cui stiamo assistendo in vista delle regionali. Elemosinando dal PD la possibilità di entrare in coalizione ovunque, anche a costo di appoggiare chi sostiene che la TAV “s’ha da fare” (come è successo in Piemonte) o chi ha sempre sostenuto che l’articolo 18 “s’ha d’abrogare” (come molto probabilmente accadrà nel Lazio). Arrivati a questo punto qualcuno potrebbe giustamente chiedere: si vabbè criticare è facile, ma che fare? Siamo sinceri, la risposta bella e pronta non ce l’abbiamo, anche perchè in tal caso saremmo impegnati a scrivere saggi invece che a decorare muri e collezionare denunce. Crediamo però che il nostro compito, il compito del movimento di classe nella sua complessità, sia oggi quello di ricostruire le condizioni che rendano nuovamente possibile la conquista dell’autonomia politica e culturale dei proletari affinchè la classe torni ad essere per se. Ovvero ricomporre, riconnettere ed unire quello che quotidianamente il capitale scompone, disconnette e divide. E per farlo non bastano, o non servono, scorciatoie organizzativistiche. Magari fosse sufficente mettere insieme tutti i communisti più communisti che ci sono, il compito sarebbe ben più agevole di quello che la realtà ci propone. Occorre invece sporcarsi le mani, radicarsi, fare inchiesta e costruire luoghi, materiali e politici, dove questi processi possano avvenire. Moderne case del popolo, Camere del lavoro territoriali, associazioni, comitati di quartiere, reti nazionali… casematte da cui poter ripartire. Se ci permettete un altro parallelismo biochimico: tornare ad essere enzimi, catalizzatori di reazioni sociali che altrimenti non avverrebbero o che avverrebbero troppo lentamente. E in questa fase non importa la collocazione, non importa in quale gruppo, o collettivo, o centro sociale, o sindacato di base si milita. Quello che conta è muoversi nella stessa direzione, averne consapevolezza e ragionare come un sistema di forze che spinge dalla stessa parte. Quello che conta è la risultante.