La reazione dei padroni, fra articolo 18 e precariato diffuso
Il mondo politico-economico si sta interrogando, in questi mesi, sulla riforma del mercato del lavoro per rendere più competitivo il paese. Queste parole e queste giustificazioni sono state alla base di tutte le recenti riforme del lavoro di questo ventennio, riforme che hanno portato l’Italia ad essere il paese che è cresciuto di meno al mondo e quello col più alto grado di precarietà d’Europa.
Nella retorica padronale, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori consentirebbe all’impresa di adattarsi meglio alle contingenze economiche, rendendo più veloce lo snellimento delle maestranze nei periodi di recessione. Nella retorica filo-padronale dei falsi amici dei lavoratori invece, essendo cambiate le condizioni di vita e di lavoro nelle società, non ha più senso inchiodare un lavoratore per cinquant’anni allo stesso posto di lavoro, e la possibilità di cambiare spesso attività sarebbero così incentivate, e sarebbero uno stimolo e un traguardo anche per il lavoratore stesso. Insomma, una flessibilità buona da opporre al concetto di precarietà cattivo. Vediamo brevemente come questo modo di impostare il discorso è assolutamente falso.
1) I datori di lavoro sono già liberi di licenziare a proprio piacimento i lavoratori nei periodi di recessione economica. Premesso che la tutela contro il licenziamento illegittimo esiste in tutti i paesi d’Europa, l’Italia è ad oggi il paese europeo più flessibile e con meno vincoli al licenziamento. Secondo gli indici OCSE (strictness of employment protection), liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano che per un suo concorrente europeo. Al capo opposto c’è la Germania, tanto osannata di questi tempi per la sua famosa “produttività” e crescita economica, che evidentemente non si basa sulla facilità di licenziare i lavoratori.
Oltre a questo, in Italia è talmente facile, e sin da subito previsto, il licenziamento per motivi economici, che è l’unico paese ad avere come protezione sociale la Cassa Integrazione Guadagni. E cioè lo Stato, sapendo bene che il licenziamento per il lavoratore può essere sempre possibile, ha previsto sin dagli anni settanta un sistema di sostegno al reddito per il lavoratore licenziato per crisi aziendale, in attesa di essere richiamato dall’azienda. La truffa, semmai, è che il lavoratore messo in cassa integrazione non viene conteggiato come “disoccupato”, perché formalmente non licenziato, anche se nei fatti quelli che tornano a lavorare nell’azienda dopo il periodo di cassa integrazione sono veramente pochi. Questa truffa si riversa anche nelle statistiche sulla disoccupazione, per cui sembra sempre che l’Italia sia nella media europea, quando nel resto d’Europa, non esistendo l’istituto della Cassa Integrazione, i lavoratori che nel nostro paese vengono conteggiati come occupati ma in CIG, sono contati semplicemente come disoccupati.
Per chiudere, poi, bisognerebbe anche che qualcuno ci spieghi il processo per cui, se un imprenditore può licenziare più agevolmente, poi l’economia dovrebbe tornare a crescere. E’ una visione del mondo che sta solamente nella mente di quegli economisti liberisti. Licenziare più agevolmente significa solamente contribuire a deprimere ulteriormente i consumi, dunque a produrre e investire di meno nella produzione, quindi ad assumere meno lavoratori. Sarebbe dunque una norma anti-economica e recessiva da evitare come la peste.
2) L’abolizione dell’articolo 18 converrebbe anche ai lavoratori stessi, rendendo più flessibile e più agevole il cambio da lavoro a lavoro. Questa è un’altra palese idiozia. Mentre il datore di lavoro è subordinato ad una norma che gli impedisce di licenziare senza giustificato motivo (cosa che però non è così, come abbiamo visto), nulla vieta al lavoratore di licenziarsi e di cambiare lavoro ogni qualvolta lo desideri. Insomma, l’articolo 18 obbliga il padrone ma non il lavoratore, che non ha altro obbligo nei confronti del datore di lavoro se non quello di preavvertirlo qualche giorno prima della volontà di porre fine al suo rapporto di lavoro. Dunque il lavoratore è già tutelato ampiamente rispetto alla sua presunta volontà di cambiare lavoro anche ogni settimana, se così volesse.
Detto questo, poi, stiamo sempre parlando di ipotesi tecniche; nella realtà, chi ha un lavoro se lo tiene stretto tutta la vita, a meno di non trovarne uno migliore. E questo il lavoratore è liberissimo di farlo: sono i padroni che non stanno garantendo il lavoro, non i lavoratori che non vogliono adattarsi alla flessibilità.
Fatta dunque questa premessa sull’assurdità di assegnare all’abolizione dell’articolo 18 un qualsiasi compito di risollevamento delle sorti economiche dell’Italia, veniamo all’altro grande dibattito molto in voga di questi tempi, e cioè quello della riforma del mercato del lavoro in vista di un superamento della precarietà. Distinguere fra le ipotesi Ichino, Boeri, Garibaldi, Sacconi o Madia non ha assolutamente senso, visto che tutte partono da un concetto comune: abolire le 46 tipologie contrattuali precarizzanti attuali, abolire il contratto a tempo indeterminato standard, e creare un unico contratto che per i primi tre anni funzioni come contratto precario d’apprendistato, per poi trasformarsi automaticamente in contratto a tempo indeterminato. Anche qui, siamo in presenza del teatro dell’assurdo.
1) Tutti i contratti precarizzanti, in teoria, funzionano così. E infatti, le varie tipologie contrattuali a tempo determinato non prevedono un rinnovo continuo all’infinito, ma quasi tutte obbligano il datore di lavoro ad assumere a tempo indeterminato dopo un certo numero di rinnovi. Il problema è che, raggiunto quel certo numero di rinnovi, l’imprenditore non rinnova più il contratto al lavoratore ma chiama un altro lavoratore al suo posto. Così rinnova il tempo a disposizione per poter sfruttare il lavoratore a tempo determinato. Cosa cambierebbe con le ipotesi di riforma proposte in questi giorni? Assolutamente nulla, visto che il datore di lavoro continuerebbe a licenziare appena la legge gli obbliga di assumere stabilmente il lavoratore.
2) Detto questo, anche qui non si riesce a capire la ratio dei ragionamenti: secondo questi professoroni, il superamento della precarietà avverrebbe eliminando il contratto a tempo indeterminato e creando un unico grande contratto precario per tutti i lavoratori. A quel punto, se le riforme sin qui pensate avessero luogo, tutti i lavoratori italiani, nessuno escluso, entrerebbero nel mondo del lavoro con un contratto precario d’apprendistato. Bel modo di eliminare la precarietà.
Di passaggio, andrebbe anche ricordato che questa riforma assomiglia molto a quella che cercò di fare il governo francese nel 2006 con il contratto unico CPE (contratto di primo impiego). Riforma che è costata alla Francia mesi e mesi di mobilitazioni generali sindacali e studentesche, prontamente ritirata dal governo. Non avendo tale capacità mobilitante, né il senso della difesa dei propri diritti che hanno assorbito nel tempo i cittadini francesi, temiamo che se davvero una di queste proposte dovesse arrivare in parlamento incontrerebbe assai poca resistenza, visto che la metà dei proponenti viene dalle fila del Partito Democratico. Anche questo, è un po’ il segno dei tempi.
Dunque, in conclusione, il dibattito attorno alle eventuali riforme del mercato del lavoro attraversa tutto lo spettro possibile del liberismo economico e sociale. E’ tutto interno a ricette economiche da scuola di Chicago, a cui purtroppo contribuisce attivamente anche il partito che dovrebbe fare opposizione in parlamento. Anche su questo, conviene non lasciare il campo del dibattito unicamente all’opzione liberista, ribadendo con forza che non esiste nessuna flessibilità positiva, che il lavoro è un diritto e che chi nel tempo si è guadagnato, con le proprie lotte di classe, le presunte “garanzie” che in questi tempi stanno venendo meno, non è un nemico generazionale del precariato odierno. Non è togliendo i diritti a chi se li è conquistati che miglioreranno le condizioni dei precari, ma sarà solo la lotta per raggiungere e ampliare quei diritti che può farci uscire dal tunnel neoliberista odierno.