La nuova Cina europea

La nuova Cina europea

 

Sebbene ancora non perfettamente definito, da qualche tempo intravediamo una specifica direzione del sistema produttivo europeo sottoposto all’unione monetaria (qui e qui alcuni nostri ragionamenti). Un sistema che si sta sviluppando verso una concentrazione di capitali e una specializzazione produttiva nelle varie aree di riferimento. Londra la piazza finanziaria, la Francia la piattaforma logistica, la Germania l’industria manifatturiera (a sua volta distinta in alta qualità prodotta in territorio tedesco e manifattura di massa a basso costo prodotta nel suo spazio vitale orientale), l’Italia riconvertita al turismo d’elite e alla produzione d’eccellenza, e così via. Una specializzazione apparentemente neutra, ma che determina una dipendenza politica verso l’unico paese economicamente autosufficiente, cioè la Germania, che continuerà a mantenere un’industria manifatturiera (l’unica che garantisce autonomia politica) tale da poter imporre le proprie decisioni. In questa divisione sinteticamente accennata, è interessante capire il ruolo della Spagna, tutt’altro che secondaria nelle scelte strategiche di Berlino, cioè della UE.

Da più parti ormai la Spagna è definita la nuova Cina d’Europa. Il salvataggio impostole dalla UE (cioè dalla Germania, che deteneva tramite le proprie banche più del 50% del debito bancario spagnolo) ne ha condizionato la propria autonomia politica. Questo non è certo avvenuto contro gli attuali leader politici spagnoli, di centrosinistra o di centrodestra, ma in perfetto accordo con questi, tanto che l’asse politico Merkel-Rajoy oggi è quello meglio funzionante in Europa. Questo è bene rilevarlo per evitare improprie rappresentazioni di una UE che “sovradeterminerebbe” le politiche nazionali dei vari Stati. La politica della UE altro non è che la somma – e la sintesi – delle singole politiche nazionali.

Tornando all’argomento trattato, è uscito recentemente (lunedì 29 settembre), su CorrierEconomia (inserto economico del Corriere della Sera), un interessante analisi sul ruolo della nuova Spagna a “guida” tedesca, che riesce a descrivere bene la direzione intrapresa da tutta la UE. Leggiamo di seguito alcuni stralci determinanti: “Madrid ha copiato Berlino […] nella specializzazione produttiva scegliendo le auto. Ci sono 17 case automobilistiche in Spagna che la rendono la seconda maggior esportatrice europea dietro, ovviamente, la Germania”. Tutto bene dunque? Evidentemente no: nessuna di queste case automobilistiche è di proprietà dello Stato o di una impresa privata spagnola. La presenza massiccia della manifattura automobilistica è determinata dal basso costo del lavoro, cioè dall’elevata produttività, che è la stessa cosa, per cui le imprese europee hanno interesse a dislocare in Spagna. Nonostante sia stata sempre caratterizzata da un certo ritardo economico, tale mole industriale è il frutto del processo di assestamento produttivo imposto dalla UE. Infatti, come rileva giustamente l’autore dell’articolo, “la brutale svalutazione interna con la caduta degli stipendi e l’aumento della produttività [i due concetti sono sinonimi, ndr] ha in effetti reso competitive le esportazioni iberiche. Quest’anno (dati CeC, la Confindustria iberica) un impiegato spagnolo costerà 34 mila euro contro i 43 mila di Italia, Francia o Germania. Il 20% in meno. E la forbice tende ad allargarsi.” Avete capito bene: nonostante la Spagna sia in crescita economica (crescita per modo di dire, visto che si tratta dello 0,7%), e l’Italia in recessioni da anni, in Spagna il livello dei salari tende a decrescere anche in confronto a quello italiano che, come sappiamo, è deprimente. Il perché è presto spiegato, e qui vale la pena soffermarcisi, sia con un stralcio dell’articolo sia con una riflessione nostra: “ tra i partner europei, la Spagna è quella che ha abbracciato con più determinazione la ricetta economica germanica al posto della perpetua espansione edilizia. Il nuovo progetto è fatto di salari bassi e flessibilità al servizio della manifattura esportatrice[…] Grazie soprattutto all’export e turismo, Madrid ha fatto segnare una crescita di 0,7 punti superiore quella della maestra tedesca”.

A dire la verità l’articolo coglie perfettamente la questione che cerchiamo di dimostrare da tempo: l’economia basata sull’export non espande la domanda interna, non aumenta i salari e dunque non genera alcun circolo virtuoso per l’economia. Allo stesso modo, un’economia fondata sul turismo e sui servizi, oltre che sugli scambi commerciali con l’estero, determina la dipendenza politica, impedisce cioè di prendere decisioni in controtendenza rispetto ai propri fornitori e partner commerciali. Questo discorso è perfettamente riproducibile per il contesto italiano. Sebbene la struttura produttiva del paese sia ancora basata su una forte manifattura, questa è in costante declino, e lo sarà sempre di più in futuro, non per la “crisi” economica, ma per la scelta politica detta in precedenza: nel sistema integrato europeo, la specializzazione comporta l’allocazione di risorse laddove conviene produrle. Nel caso manifatturiero, in Germania e nel suo hinterland orientale composto da Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Romania.

La Spagna allora, esattamente come l’Italia, potrà anche tornare a “crescere” economicamente, ma sarà una crescita che non riguarderà più i produttori, cioè i lavoratori, ma unicamente i possessori dei mezzi di produzione, senza alcuna necessità da parte dello Stato di mediare tra le due parti con lo scopo di mantenere una domanda interna capace di assorbire quote rilevanti della produzione nazionale. La “crescita” economica spagnola ci dimostra il ribaltamento dell’economia novecentesca. Se prima gli investimenti generavano un aumento della produzione che determinava una diminuzione della disoccupazione e dunque un innalzamento tendenziale dei salari, oggi è vero il contrario: gli investimenti sono possibili solo dove è presente una decrescita salariale, dove la disoccupazione è tendenzialmente elevata, tale da garantire continuo ricambio lavorativo e dunque sempre meno possibilità per la domanda interna di assorbire la produzione, destinata ad altre aree del mondo. Un futuro molto simile a quello italiano.