La “generazione Greta” e l’antropocene: alcune riflessioni
Come molti già sapranno il prossimo 23 settembre nel palazzo di vetro dell’ONU si celebrerà il Climate Action Summit. Il vertice, convocato dal segretario generale Antònio Guterres, chiude idealmente un anno che ha visto ritornare prepotentemente la questione del cambiamento climatico al centro del dibattito pubblico, e questo mentre le piazze delle capitali occidentali venivano riempite da folle di giovani e giovanissimi appartenenti a quella che è già stata ridefinita come la “generazione Greta”. Un fenomeno mediatico, prima ancora che sociale o culturale, quello dell’attivismo climatico, che nel giro di poche settimane è esploso fino a diventare mainstream. Per rendersene conto basterebbe leggersi la mole di tweets ecosensibili pubblicati dalle star hollywoodiane “progressiste”, che quasi quotidianamente dalle loro ville con piscina si dichiarano preoccupate per le sorti del pianeta, oppure soffermarsi sulle ormai innumerevoli operazioni di “greenwashing” messe in campo in questi mesi dagli esperti di marketing delle principali multinazionali. Per non parlare poi dei maldestri tentativi di cavalcare l’onda verde da parte della politica ufficiale nel tentativo di catturare qualche consenso e/o rifarsi una verginità elettorale. Si pensi alle accuse (ipocrite) lanciate dai vari Macron o Trudeau a Bolsonaro durante l’emergenza incendi in Amazzonia, oppure, senza andare troppo lontano, alle comparsate nelle piazze di “Friday For Future” dei burocrati del PD. Qualche giorno fa perfino il principe Henry d’Inghilterra, dopo essere stato stigmatizzato pubblicamente per aver utilizzato un jet privato, si è sentito in dovere di organizzare una conferenza stampa per assicurare di “compensare sempre le sue emissioni di anidride carbonica”. Ormai quasi non si contano più le pubblicazioni in cui viene calcolata al milligrammo la nostra “impronta carbonica”. Sappiamo che se mangiamo una mela che non proviene dal nostro orto produciamo 150 grammi di CO2, che se facciamo 10 Km in macchina la nostra produzione sale a 3,23 Kg, mentre con l’autobus scenderebbe a 1,04 kg. Una sorta di feticismo molecolare per l’anidride carbonica che finisce, però, per spostare inevitabilmente l’attenzione dalla causa all’effetto. Come scrive puntualmente Paul Kingsnorth: “La mia impressione è che il movimento ecologista abbia sabotato sé stesso coi numeri. La sua ostinata ossessione per il cambiamento climatico e la sua insistenza nel considerarlo una sfida ingegneristica e tecnologica guidata dall’immobile neutralità della scienza, l’ha portato in un ghetto da cui rischia di non uscire. All’interno del pensiero comune odierno, molti ecologisti passano il loro tempo discutendo cosa preferiscono tra centrali eoliche e canali ondogeni, energia nucleare o estrazione del carbone. Essi offrono considerevoli e convinte predizioni di cosa accadrà se facciamo o meno questo o quello, sulla base di sconvolgenti dati numerici, selettivamente scelti da questo o quello “studio”, come se il mondo fosse un gigantesco foglio di calcolo che ha solo bisogno di essere correttamente bilanciato.”
Prima di procedere oltre col nostro ragionamento occorre però sgomberare il campo da possibili equivoci o fraintendimenti. Non intendiamo assolutamente iscriverci qui alla lista dei relativisti o dei negazionisti climatici. Il surriscaldamento del pianeta è un fenomeno acclarato e scientificamente incontrovertibile i cui effetti, potenzialmente disastrosi per l’ecosistema-mondo, sono oggi sotto gli occhi di tutti e non solo degli addetti ai lavori. Né tantomeno può essere negata l’urgenza di azione che quelle piazze, sia pur tra qualche ingenuità, giustamente esprimono. Ciò che proprio non ci convince, piuttosto, è l’individuazione delle cause del fenomeno che oggi sembrano prevalere all’interno del pensiero ecologista, anche quello radicale, e che indicano nella coppia carbone/vapore, ossia nel cosiddetto “capitalismo fossile” inaugurato con la rivoluzione industriale, l’alfa e l’omega di ogni male. Un approccio che si porta dietro un’ambiguità di fondo, ovvero che possa davvero esistere un altro capitalismo, magari “green” o “ecofriendly”, e che invece che di guardare ai rapporti di produzione rischia di soffermarsi fin troppo sugli “stili di vita”, sostenibili o inquinanti, e sui comportamenti individuali e/o collettivi. Come se preferire la doccia al bagno in vasca o il treno all’aereo bastasse di per sé a risolvere i problemi del riscaldamento planetario.
C’è un neologismo che in questi ultimi anni ha catturato sia l’attenzione accademica che quella del grande pubblico, e che a ben vedere racchiude in sè questa ambiguità interpretative, ed è quello di Antropocene. Ovvero, secondo la definizione che ne diede nel 2002 Paul Crutzen (Nobel per la chimica nel 1995), l’epoca geologica in cui viviamo. Quella in cui l’umanità diviene essa stessa una “forza geofisica” capace di trasformare il pianeta, modificandone il territorio e l’atmosfera, alterandone irreversibilmente l’equilibrio.
Tanto per fornire un’idea di massima sulla portata di queste trasformazioni: l’agricoltura e l’allevamento industriale, che sono oggi ritenuti responsabili del 25% delle emissioni di gas serra, consumano terreno fertile in misura cento volte superiore a quanto non ne venga ricostituito dai normali processi di decomposizione organica. Ciò significa che nel girò di 20 anni viene “consumato” uno strato di terreno fertile che necessità tra i 200 e i 1000 anni per essere ricostituito. Tra le varie interpretazioni che vengono date del concetto di Antropocene quella oggi dominante rintraccia le sue origini, e quindi quelle del mondo moderno, nell’Inghilterra del XIX secolo e nella sua rivoluzione industriale. Tanto che lo stesso Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu (l’IPCC) misura l’aumento del riscaldamento globale proprio a partire dall’era preindustriale.
Un primo elemento fuorviante di questo modello interpretativo è che già a livello semantico viene indicato nell’Anthropos la forza motrice di questo cambiamento epocale. Non nel Capitale, non nella società divisa in classi e nemmeno nell’imperialismo o nel colonialismo, ma nell’attività di un’umanità che si fa indistinta, astratta ed omogenea, e in cui le diseguaglianze, l’alienazione e la violenza dei rapporti di produzione scompaiono quasi completamente. La responsabilità del cambiamento globale viene così ascritta agli uomini e alle donne nel loro complesso e non alle forze del Capitale, agli Stati o agli imperi che hanno dato forma alla storia mondiale moderna. Da questa “interpretazione” della crisi ecologica ne discende inevitabilmente una prospettiva politica “umanista”, interclassista e cosmopolita, secondo cui per governare il problema del cambiamento ambientale l’umanità non dovrebbe far altro che mettere da parte le proprie divisioni e sedersi intorno ad un tavolo per affrontare razionalmente la questione. Come sostengono alcuni ambientalisti proprio la crisi ecologica permetterebbe infatti di ipotizzare che il genere umano, e non una delle classi in cui è diviso, possa finalmente diventare il “soggetto” della storia”. Del resto, ed è questo il sottotesto semplificante del loro ragionamento, di fronte ai cambiamenti climatici ci troviamo, come “specie”, tutti su una stessa barca su cui non esistono scialuppe di salvataggio: ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. In questo modo, però, finiscono per essere occultate, in un colpo solo e quasi senza rendersene conto, non solo le cause reali delle trasformazioni ambientali, ma anche le diseguaglianze ecologiche che ne derivano e la differenzialità degli effetti. Come ricorda Razmig Keucheyan affrontando il tema del razzismo ambientale in un volume pubblicato recentemente dai tipi di Ombre Corte, nel 2005, quando l’uragano Katrina colpì New Orleans, oltre l’80% della città venne sommersa dall’acqua provocando oltre 2000 morti e più di un milione di sfollati. Ma la furia della natura non colpì tutti allo stesso modo, piuttosto si concentrò su anziani e neri, ovvero sulle fasce deboli della popolazione che vivevano nei quartieri poveri. A dimostrazione che su una nave se dormi in stiva o in una suite le cose cambiano, eccome.
L’altro aspetto fuorviante risiede poi nella periodizzazione storica che di fatto viene imposta attraverso questo modello interpretativo. Far partire l’Antropocene dal brevetto della macchina a vapore di James Watt nel 1782 significa fornire un’interpretazione astorica dell’industrializzazione, come se si trattasse di una sorta di Big Bang della modernità, e non invece il prodotto e la cristallizzazione di secoli di evoluzione del modo di produzione capitalistico. Spostare la lancetta dell’inizio dell’Antropocene sul XIX secolo piuttosto che sull’ascesa e la progressiva affermazione della civiltà capitalista significa spostare l’attenzione sulle conseguenze piuttosto che sui rapporti sociali che le determinano. Ma soprattutto significa dare la priorità alla dismissione delle macchine e delle miniere, o delle loro incarnazioni nel XXI secolo, piuttosto che a mettere in discussione il modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Come scrive Jason W. Moore “spegnere una centrale elettrica a carbone può rallentare il riscaldamento globale per un giorno, trasformare i rapporti sociali che sottendono la miniera di carbone può fermalo per sempre (…) Stiamo dunque vivendo davvero nell’Antropocene? Oppure stiamo vivendo, invece, nel Capitalocene, l’epoca storica plasmata dai rapporti che privilegiano l’infinita accumulazione del Capitale?” Se si accetta l’idea che il cambiamento climatico e la crisi ecologica siano il prodotto dal capitalismo allora è poco probabile che unire la specie umana attorno a degli obiettivi comuni sia una condizione della soluzione di questa crisi. Questa, al contrario, richiede probabilmente la radicalizzazione degli antagonismi, vale a dire la radicalizzazione della critica (e della lotta) al capitalismo: la natura è un campo di battaglia (Kheuchyan, 2019).