La doppia anima del capitalismo

La doppia anima del capitalismo

Stimolati dagli spunti e dai commenti della precedente discussione sugli attacchi giudiziari alla Lega Nord, proviamo a sistematizzare alcune riflessioni che si sono rincorse in questi mesi sull’attuale fase politica che stiamo vivendo. Riflessioni per forza di cose schematiche, che non tengono volutamente conto delle contraddizioni, dei rallentamenti e delle imprevedibilità che processi del genere sempre si portano dietro.

E’ in corso, in tutta Europa, uno scontro aperto fra due anime del capitalismo. Uno scontro intra-capitalistico, che però avviene senza esclusione di colpi e con una determinazione che potrebbe essere scambiata per apparente contraddizione sociale, e dunque conflitto contro certi aspetti del capitalismo. Il caso italiano, come molte altre volte, ne costituisce uno degli esempi più lampanti ed è il terreno dove si sta giocando una partita molto più grande di noi (di noi inteso come Italia).

La posta in palio è il modello di sviluppo economico che uscirà da questo scontro, che governerà il continente europeo nella fase di crescita post-crisi. Da una parte c’è il grande capitalismo multinazionale-finanziario. Il capitalismo delle grandi imprese-sistema, legate a doppio filo con le strutture finanziarie. E’ la forma di capitalismo a scala europea, che spinge per l’integrazione, per un sistema fiscale unico e un’unica legislazione sul lavoro (in senso neoliberista) all’interno della UE. E’ il capitalismo legalitario, antievasore, nazionalista ma al contempo europeista. Il capitalismo delle case automobilistiche, delle grandi corporation dell’informazione e della distribuzione, il capitalismo delle società quotate in borsa. E’ anche il capitalismo della NATO, filo-statunitense, guerrafondaio e interventista. L’espressione politica esemplare di tale capitalismo è Mario Monti (e del suo fedele servitore Napolitano).

Dall’altra parte c’è il capitalismo selvaggio rappresentato dalla piccola e media impresa. Il nano-capitalismo legato al territorio, corporativista, antistatale ma soprattutto antieuropeo, affascinato dall’illegalità, soprattutto quando vista in funzione politica contro lo Stato, evasore fiscale per ideologia più che per necessità. Il capitalismo del lavoro nero, degli appalti truccati, del “piccolo è bello”, antilegalitario, apparentemente contro la globalizzazione e ogni forma di economia in scala. L’espressione politica di questo capitalismo è la Lega Nord (e Berlusconi) in Italia, così come Le Pen in Francia e in generale tutti quei movimenti di destra che sono nati in questi anni in Europa, strenui difensori della “regionalità”, della territorializzazione, della lotta contro l’Europa e contro la globalizzazione.

Sono due anime del capitalismo che quasi sempre sono andate a braccetto. Gli ultimi vent’anni però hanno visto una eccessiva sovra rappresentazione dell’anima selvaggia del capitalismo, de-regolarizzante, de-centralizzante, che è stata una delle cause della crisi che stiamo vivendo. E’ necessaria una svolta economica, e questo il capitale l’ha capito e si sta muovendo di conseguenza.

Davanti a questa lettura, si capisce meglio ciò che sta accadendo in Italia da qualche mese a questa parte. Con Berlusconi, è stato messo da parte tutto ciò che politicamente ed economicamente lui rappresentava. E cioè quel capitalismo selvaggio che ha governato l’Italia in questo quindicennio, ma che soprattutto costituisce un ostacolo alla piena affermazione del capitalismo globalizzato finanziario. Ed è in questo quadro che si capiscono meglio le inchieste giudiziarie contro la Lega Nord. Intendiamoci: quello che sta accadendo alla Lega è perfettamente lecito: è un partito che fa parte di un sistema corrotto che ha contribuito a formare e ad espandere. Solo che il timing ci lascia un po’ perplessi. Così come il violento attacco mediatico e politico contro Vendola, praticamente estromesso da ogni ipotesi di discesa in campo che non sia all’interno della grande coalizione democratica, o relegato all’anonimato funzionale della coalizione delle sinistre. Il capitalismo finanziario-globalizzato ha necessità di imporsi, e non può tollerare spazi politici d’opposizione che siano d’ostacolo reale alla sua affermazione. Questo non vuol dire che scompariranno le opposizioni, ma rimarranno solo quelle fisiologiche. Rimarrà Di Pietro (e quelli come lui) quale utile fantoccio dietro il quale mostrare l’apparenza democratica e pluralista di uno stato che è sempre meno Stato e sempre più regione economica del grande spazio economico europeo. La Lega no, la Lega dev’essere ridimensionata, perché espressione di un capitalismo che non può permettersi di guidare la ripartenza economica della regione italiana. La Lega andrà normalizzata, e lo strumento della sua normalizzazione è Maroni, l’espressione di una Lega non più secessionista ma legalitaria, contro l’evasione fiscale, convintamente europeista al di là dell’apparente retorica pubblica.

Non è un discorso di merito. Non c’è un capitalismo migliore e uno peggiore. Non ce n’è uno, per così dire, più “keynesiano” e uno più “reaganiano”. Sono solo espressioni politiche di due modi diversi di intendere la forma di sviluppo economico all’interno del contesto capitalista. Noi invece dovremmo non cascarci, soprattutto non prendere l’abbaglio di sostenere prese di posizione apparentemente contrastanti modelli di sviluppo neoliberisti (come il caso della Lega, ora accanita avversaria della riforma dell’art. 18 quando fino a qualche mese fa fautrice delle politiche più neoliberiste possibili). Alcune parti politiche escluse dal gioco tenteranno la retorica formalmente antiliberista. Proprio il tentativo di abbattere l’articolo 18 è una palese dimostrazione: la Lega Nord, espressione politica della piccola impresa diffusa del nord, ha a che fare con una base sociale cui l’articolo 18 non riguarda, e quindi può permettersi sparate apparentemente progressiste, come quelle fatte nei giorni scorsi contro la riforma del mercato del lavoro; Monti, invece, quale esponente della grande borghesia, intravede nell’articolo 18 il baluardo simbolico da abbattere, perché i suoi referenti economici sono tutti grandi imprenditori con aziende di migliaia di persone.

Nel caso italiano, è abbastanza chiaro che le parti politiche che appoggiano Monti sono il PD, l’UDC e la parte del PDL che fa riferimento a Forza Italia. Queste espressioni politiche sono destinate per forza di cose ad andare, in un modo o nell’altro, unite alle elezioni del 2013. Anche perché appoggiare Monti e la sua opzione politica significa acquistare voti. Monti è politico ma al contempo anti-politico, non appoggiarlo significherebbe venire stritolati dalla retorica antipolitica e antipartitica attuale, passare come il vecchio contro il nuovo che avanza. E farebbe perdere voti. Dopo le amministrative di Maggio, e soprattutto nei mesi a cavallo fra il 2012 e il 2013, ci sarà evidentemente un rimescolamento dell’offerta politica. Se le amministrative andranno male, il primo a muoversi sarà il PDL, e se una parte del PDL, la parte legata a Forza Italia e a Berlusconi, riuscirà a creare un soggetto politico nuovo e ad allearsi con il Terzo Polo, il PD non potrà per forza di cose rimanere a guardare e rischiare di perdere l’ennesima tornata elettorale. Soprattutto, non rimarrà a guardare quella parte del PD più sensibile alle sirene centriste, dunque Veltroni, Franceschini, Fioroni, Follini e via dicendo. Dunque forse formalmente rimarrà ancora il PD, ma privato della sua componente centrista, che nel frattempo potrebbe essersi alleata con le componenti centriste degli altri partiti, facendo nascere qualche nuovo soggetto capace di riagglomerare la galassia democristiana ancora dispersa in parlamento.

Tutto questo è confermato anche dalle ipotesi sulla nuova legge elettorale. Non è un caso, infatti, che le proposte vadano tutte nel senso di una nuova legge elettorale proporzionale che preveda la formazione del governo dopo le elezioni, tramite accordi parlamentari, e non prima delle elezioni, come accade da un ventennio dopo la riforma elettorale del ’93. In pratica, non ci saranno più coalizioni di più partiti, ma ogni partito si presenterà singolarmente, e il partito che vincerà cercherà in parlamento l’alleanza che gli garantisca una maggioranza parlamentare così da poter formare il nuovo governo. Insomma, torneremmo apparentemente al sistema che ci ha governato per quarant’anni, ma senza vera proporzionalità delle forze in parlamento e senza differenza fra i partiti al governo e quelli all’opposizione. Ci sarà una nuova DC, ma non ci sarà un nuovo PCI. Tutti i partiti potranno ipoteticamente accedere al governo, trovare le alleanze parlamentari più efficaci, senza alcuna conventio ad escludendum.

Tramite questo meccanismo, non è poi tanto difficile fare ulteriori previsioni, anche se mancano quasi due anni e dunque tutto può cambiare. Il partito che vincerà le elezioni (il PD o il nuovo soggetto politico centrista) farà in parlamento l’alleanza con il maggior partito escluso (e quindi sempre o il PD o il nuovo soggetto centrista). Ecco formato il partito unico del grande capitale.