La classe operaia di Taranto…
Dopo la manifestazione dello scorso 2 agosto a Taranto e soprattutto dopo la contestazione del palco sindacale su cui molto si è scritto e detto, anche a sproposito, ci è sembrato utile riproporre questo articolo scritto in presa diretta da Davide Cobbe e Devi sacchetto per connessioniprecarie.
Sindacati alle cozze e classe operaia in «u tre rote»
Quando Maurizio Landini, il segretario generale della Fiom, prende la parola di fronte ai circa 2500-3000 operai dell’Ilva che affollano piazza della Vittoria a Taranto, 2-300 persone riunite nello spezzone dei «Cittadini e lavoratori liberi e pensanti» fanno il loro ingresso rumoroso. La loro moto-ape a tre ruote – dotata di una forza paragonabile a quella dei grandi mostri cingolati degli eserciti, ma attrezzata solo con casse e microfono – ospita a bordo cinque operai assai arrabbiati, e si sistema a non più di venti metri dal palco, continuando a gridare slogan contro il padronato, ma soprattutto contro sindacalisti e autorità appollaiate in tribuna. Non sventolano bandiere, solo uno striscione alle loro spalle: «Sì ai diritti, no ai ricatti: salute, ambiente, reddito occupazione». Nessuno li contrasta, nessuno ne chiede l’espulsione dalla piazza, e intanto gridano slogan: la gran parte degli operai è attenta a che cosa hanno da dire, riconoscendoli come compagni di lavoro. Non c’è rottura operaia, come titolano felici i quotidiani l’indomani. Uova e transenne che volano rimangono nella testa solo di qualche giornalista prezzolato. È una contestazione a viso aperto, di una parte di operai e studenti che in questa piazza riscuote consenso. La tensione nella piazza operaia inizia a salire solo quando poliziotti e carabinieri in assetto anti-sommossa si muovono rinforzando la protezione al palco. Gli operai irruenti e incazzati rimangono fermi lì nel bel mezzo della piazza, gridando i loro slogan e pretendendo di poter parlare dal palco. Non una grande richiesta. Nessuna concessione, però, ma solo mute risposte come quella data il giorno prima dai dirigenti sindacali al gruppo di operai che, con un fax, chiedeva di poter intervenire dal palco. Per una buona mezzora l’impasse è generale: Cgil-Cisl-Uil prima dichiarano chiusa la manifestazione, quindi invitano tutti gli operai a spostarsi nella piazza a lato, ma nessuno si muove. A quel punto gli irruenti decidono di tenere il loro breve comizio da sopra «u tre rote». Essi rivendicano sostanzialmente di non esser più costretti a scegliere tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. Accusano i sindacati confederali di averli lasciati nella solitudine e nell’isolamento e di aver contrastato le poche forme di auto-organizzazione che sono cresciute nel corso di questi anni dentro all’Ilva. Diversamente da come viene rappresentata, questa giornata tarantina è un momento liberatorio. Un sindacato che nel suo complesso viene delegittimato e costretto alla resa, ma che da domani inizierà di nuovo a lavorare, in larga parte, per la continuazione della produzione, finendo così per sostenere, direttamente o indirettamente, le ragioni del padronato, qui rappresentato da uno degli ultimi padroni delle ferriere, Emilio Riva. Una produzione che si vorrebbe eco-compatible, come scrive la Confcommercio sui manifesti appiccicati alle vetrine dei negozi del centro cittadino e come dichiarano in un sol coro i tre segretari confederali. Cataldo Ranieri, uno di questi irruenti operai, afferma invece: «Noi non possiamo far vedere che abbiamo paura che chiudano lo stabilimento, non abbiamo più paura perché abbiamo conosciuto la morte». La contrapposizione tra lavoro e salute qui sembra posta più dalla sinistra produttivista che dalla destra: «prima il lavoro e poi la salute». Qualche giornalista di Rai 3, forse forte del cognome che porta, aveva già provato qualche giorno fa a mettere all’angolo questi operai chiedendo loro se vogliono che l’Ilva chiuda o che rimanga aperta, cioè – come essi stessi riassumono – se vogliono morire di fame o di cancro. Allora come adesso, essi rispondono candidamente di essere solo operai, di voler vivere e guadagnarsi il pane senza mettere in pericolo la salute: «non sono un politico e non mi occupo di politica», dice senza paura di contraddirsi uno di loro. Piuttosto, si occupano della loro esistenza operaia: «E ora metteteci anche il tumore nella busta paga» grida Cataldo Ranieri. Quarantadue anni, quattordici di Ilva, otto di tessera Fiom, ora alla Fim da due settimane per ottenere l’assistenza legale per le contestazioni disciplinari. Due figli e una moglie precaria in un call center della città. È lui che i giornalisti identificano come il leader, e che circondano appena scende dal pericoloso strumento squadrista «u tre rote». Il rifiuto degli operai di occuparsi dell’interesse generale, o peggio degli affari del padrone, svela l’ideologia di cui si riveste ampia parte della sinistra in Italia. Mentre, dal palco, Susanna Camusso chiude questa giornata, con gli ormai pochi operai rimasti in piazza, ripetendo il ritornello tanto caro a questi sindacati, oltre che al padronato: il risanamento si dovrà fare con gli impianti in marcia. Un sindacato che si sente in dovere di suggerire al padronato come fare il suo mestiere ha già perso la battaglia culturale, oltre che politica. Intanto, nella stessa giornata, gli impianti, al solito, funzionano come sempre e la banchina del porto i riempiva di laminati. Su questi operai irruenti la sinistra di questo paese, centrali sindacali comprese, ha già emesso la sentenza: Cobas, estremisti, centri sociali, no-global. Un intellettuale di sinistra sulle pagine locali di un quotidiano nazionale li bolla addirittura come squadristi e utili idioti che non sanno far altro che sfasciare, perché privi di un vocabolario della politica, pieni di incultura. Ohibò! Squadristi organizzati in «u tre rote» affittato per 100 euro da «Antonio u’ siciliano – Traslochi», che lo guida e che nel frattempo si fa un po’ di pubblicità: fa più sorridere che paura. Forse sarebbe il caso di morire di tumore in silenzio per 1.200 euro al mese, lasciando al sindacato la contrattazione. E questi non sono neppure lavoratori migranti sindacalmente ‘ingenui’ che cercano di auto-organizzarsi, come l’anno scorso a Nardò, cento chilometri più a sud. Nelle poche grandi fabbriche del sud, i migranti non sono mai entrati perché il padronato sceglie sempre la sua forza lavoro. Nell’incapacità di comprendere le trasformazioni che stanno avvenendo non solo a Taranto, ma in tutto il paese, sembra che sia necessario ricorrere a formule facili. Propaganda. Ma questi operai con «u tre rote» entrano nelle contraddizioni profonde delle varie sinistre di questo paese. Chissà cosa avrà pensato Maurizio Landini, che accusa questi lavoratori di voler vivere solo di sussidi statali invece di difendere il proprio posto di lavoro, delle dichiarazioni dei centri sociali del nord-est che plaudono alle iniziative degli operai e cittadini. In molti, sembra di capire, rimangono smemorati. Da queste parti il lavoro rimane ‘a fatia – la fatica –, come davanti a un giornalista si lascia scappare uno di questi irruenti, salvo subito correggersi. No, non è il bene comune, anche se con una disoccupazione che tocca il 30% ognuno cerca di farsi sfruttare, magari senza dover crepare faticando. Fa specie leggere come i leader sindacali ritengano che gli irruenti operai e cittadini avrebbero dovuto organizzarsi una loro manifestazione, quasi che gli operai siano un corpo staccato. Stefano Sibilla, un altro di questi operai, ha le idee piuttosto chiare: «Qua non c’è un’idea di lavoratori divisi. L’idea di lavoratori divisi è solo grazie ai sindacati. Quando un segretario [quello della Fim locale] esordisce a un’assemblea [il giorno prima dello sciopero] di quattromila persone, dicendo che occorre portare solidarietà agli otto arrestati [dirigenti dell’Ilva], che sono quelli che ci hanno sottomesso, che ci hanno minacciato, che ci hanno avvelenato, è un sindacato che o non capisce che il cuore dei suoi lavoratori sta per esplodere o è troppo attaccato al padrone per tradirlo. Non serve che io mi arrabbi: i sindacati di Taranto non funzionano». Che un pezzo di sindacato, così come capi e capetti, sia strettamente connesso al padronato non è certo una novità. Qui forse però bisognerebbe capire le varie responsabilità in tutta questa storia di silenzi e insabbiamenti, su cui i giornalisti come troppo spesso accade in questo paese o sono distratti o sono collusi. Le etichettature con cui si prova a isolare questa esperienza danno la misura non solo del malessere, ma anche della veloce crescita di consapevolezza e di protagonismo sia operaio sia di una parte importante della popolazione che si nota in questa città. Una classe operaia che fino a pochi giorni fa, trascinata da qualche sindacato complice e da qualcun altro forse troppo silenzioso, sosteneva le ragioni del padrone, e che è sempre stata considerata un po’ «teppa», magari perché assunta tramite le raccomandazioni sindacali, in particolare della Uil, oppure attraverso la parrocchia. Una classe operaia metà contadina e metà sottoproletariato che va allo stadio, invece di frequentare i salotti culturali e di mantenere l’ordine durante le manifestazioni. Una classe operaia meridionale che ha cercato un lavoro in loco per non ripercorrere la dura strada dell’emigrazione. Certo è una classe operaia che non sembra ancora entrata nella post-modernità e non ha certo le stigmate della lotta di classe della gloriosa Mirafiori. Forse c’è giunta con quarant’anni di ritardo, ma sta ponendo ancora una volta la questione dell’irrisarcibilità della condizione operaia provando a unire quanto è solitamente disunito, vale a dire le questioni della produzione di beni e della riproduzione umana. Il sistema di lavoro all’Ilva consuma a brano a brano la vita umana dei lavoratori come degli abitanti. È su questa irrisarcibilità che sembrano cercare di fare fronte comune questo pugno di studenti, operai e disoccupati per costruire un proprio percorso politico autonomo. Capiscono cosa fanno, capiscono cosa sono. Non sono «dipendenti asserviti al padrone», come sono stati definiti con le migliori intenzioni. La frettolosa proposta di un reddito di cittadinanza velocemente riemersa non risponde nemmeno lontanamente a quanto sta succedendo, perché questi operai stanno già lottando contro il salario, quale misura del loro lavoro e della loro vita. Non sono una «moltitudine oscura e desiderosa di servitù volontaria» a spasso tra i secoli. Negli ultimi giorni hanno fatto un gran salto rispetto solo a qualche giorno fa. Un salto di classe.
di Davide Cobbe e Devi Sacchetto