Je suis…?

Je suis…?

 

Non è una notizia l’assenza di solidarietà alla Russia seguita all’attentato di San Pietroburgo dell’altro ieri. Sarebbe stato sospetto il contrario. Questo silenzio smaschera semmai la doppia morale vigente riguardo al “terrorismo”, fenomeno tutt’altro che “unificante” nella sua violenza. Già oggi (due giorni dopo!) la notizia è scomparsa dalle principali testate, sostituita casualmente dal puntuale ritorno delle “armi chimiche” in Siria utilizzate da Assad quindi da Putin. La Russia è tornata sul banco degli imputati, posto che occupa d’altronde senza rivali. Il tono medio del racconto giornalistico consigliava in ogni caso la pronta archiviazione del caso, onde evitare torsioni cabarettistiche che stavano prendendo piede sui giornali. Nel regime mediatico unificato le motivazioni suggerite erano: Putin se l’è cercata, così impara a bombardare in giro per il mondo; Putin non ha il controllo del territorio e delle sue principali città, segno di debolezza; Putin è l’artefice diretto dell’attentato per sviare l’attenzione dalle proteste liberali della scorsa settimana. Poco da piangere le vittime di San Pietroburgo, il problema è Putin, quindi affari suoi. Con buona pace della “sacralità della vita” e dei “valori universali dell’Occidente”, retoriche che ci travolgono a ogni attentato dalle nostre parti, ma – evidentemente – non così universali da comprendere anche le parti del mondo fuori dai confini euro-atlantici.

Il problema, in questo caso, non sta tanto nel rimestare la peggiore dietrologia sovietologica, ma l’assenza della stessa dietrologia nel caso di vittime occidentali. Se l’attentato fosse stato commesso in qualche città europea, la narrazione a senso unico avrebbe ostruito ogni racconto dei fatti non convenzionale. Parigi, Londra o Berlino partecipano agli stessi bombardamenti di territori altrui, eppure nelle precedenti circostanze nessuna voce ha trovato spazio nel mainstream rispetto alle politiche imperialiste europee in Medioriente. La polemica sul mancato controllo del territorio, nei precedenti attentati, subito silenziata dalla versione del “non possiamo controllare tutto” e del “dobbiamo convivere col terrore”. Per non dire degli attentati pro domo propria, versione complottistica impensabile in Occidente ma perfettamente calzante nel caso russo, anzi: la versione implicitamente preferita nelle grandi interpretazioni lette sui giornali in questi due giorni.

Questa doppia morale non ci impressiona, ma dovrebbe contribuire a smentire le fondamenta del racconto sull’Occidente in guerra contro il terrorismo: in primo luogo, i terroristi non colpiscono alcun “modo di vita occidentale”. Come evidente, i “terroristi” colpiscono un po’ ovunque, a prescindere dall’Occidente e dai suoi “valori”, e lo fanno per una strategia politica, non perché religiosamente avversi alla secolarizzazione europea. Secondo poi, non vale alcuna “sacralità della vita”: le vittime europee (e nord-americane) hanno un peso diverso, e questo non è determinato dalla vicinanza geografica con gli attentati (visto che un attentato negli Usa ha più risalto di uno in Russia – che pure fa parte integrante dello spazio europeo), quanto dal valore politico dei morti. I morti occidentali servono alla costruzione di una narrazione legittimante (e pacificante) volta ad aggregare consensi trasversali attorno alle politiche imperialiste e neocoloniali nei territori mediorientali. I morti russi (asiatici, africani, latinoamericani, eccetera) non servono a tale discorso. E allora ecco tornare il complottismo delle classi dominanti, quello per cui tra la verità ufficiale e la verità materiale c’è sempre uno scarto determinato dagli interessi del potere. Non una grande novità, ma per chi fa dell’anticomplottismo la maschera per legittimare il potere costituito, l’ennesima contraddizione con cui fare i conti.