Il Mediterraneo che brucia

Il Mediterraneo che brucia

Gli sviluppi delle rivolte che hanno caratterizzato l’inizio del 2011 nell’area mediterranea non ci hanno lasciati indifferenti; ci hanno solo resi desiderosi di capire, di valutare, di aspettare per stilare alcune considerazioni, senza farsi prendere dalla frenesia del riot timing e dalla sindrome del blogger. Già, perché uno dei maggiori limiti della cosiddetta controinformazione che segue e sostiene le rivolte extraeuropee è sempre quella di trovare da un lato un blogger o un sito da erigere a Bibbia o tempio della verità, dall’altro di incanalare questo flusso di notizie in una miscellanea di folklore e simpatia buonista che spesso accompagna quelle che i media mainstream definiscono “rivoluzioni colorate”, ovvero – aggiungiamo noi – prototipi di governi fantoccio vestiti alla meno peggio.

Nessuna simpatia aprioristica, nessuna pretesa di Verità; il contesto arabo offre molteplici sfumature a noi poco comprensibili, un po’ per disabitudine nostra a guardare fuori dal vecchio continente con un piglio che non sia eurocentrico, un po’ perché obiettivamente è difficile calarsi in una realtà diversa e spesso conosciuta a mozzichi e bocconi sulla base di un’informazione parziale e di comodo.

Precisazioni e premesse doverose, a nostro giudizio, se si vuole capire (o provare a farlo) cosa c’è dietro (e cosa ci sarà dopo) le sommosse dell’ultimo mese.

Il contagio di piazza che ha terremotato l’Algeria e la Tunisia, è arrivato anche in Egitto. L’ultima settimana, come sappiamo, ha visto una forte partecipazione di massa che, sfidando il coprifuoco e la polizia di Mubarak (al prezzo di oltre 200 morti e 1500arresti), ha imposto all’attenzione mondiale due questioni fondamentali: il dopo Mubarak, al di là del tempista rientro di El Baradei; l’imbarazzo di Washington, fino a ieri amica di Mubarak e della democrazia e oggi impantanata nel rebus dei sinonimi e contrari. Il quesito che molti altri si pongono, poi, è a che ora prendono sonno in Israele da una settimana a questa parte, vista l’incrinatura della subalternità – spacciata per amicizia – che ha legato l’Egitto di Mubarak allo stato sionista. Appare evidente come i tre elementi siano pennellate di un quadro che man mano che si delinea rischia di far saltare equilibri geopolitici di un’area e di un paese determinanti per lo scacchiere dell’intero Medioriente.
Che Mubarak non fosse un democratico non lo si scopre oggi; trent’anni di strapotere continuato,  designazione alla successione in via del tutto ereditaria, repressione e persecuzione del dissenso laico-progressista (il cartello Kifaya) e della Fratellanza Mussulmana (interpreti dello stato di diritto islamico e del welfare religioso), sottomissione al ricatto economico statunitense in cambio di una politica filo-israeliana e  anti-palestinese, durante le presidenze a stelle e strisce dei vari Reagan, Bush (padre e figlio), Clinton e Obama, solo per citare i più recenti ed i più “impegnati” – a vario titolo – sul fronte mediorientale.
Ovvio che ad oggi gli Stati Uniti provino un certo imbarazzo nel pronunciarsi su quanto accade a Il Cairo; altrettanto l’Europa, che a differenza degli americani sconta una innegabile contiguità territoriale con l’Egitto, il che rende pericoloso il silenzio che sta dietro le formalità diplomatiche. A dover parlare dell’Italia, poi, verrebbe da ridere; ieri dalle colonne de Repubblica il direttore del bimestrale geopolitico Limes Luciano Caracciolo faceva notare come da noi sia più facile parlare della nipote di Mubarak piuttosto che del rais stesso…
Eppure un po’ tutte le testate giornalistiche mettevano in guardia dal considerare la sommossa egiziana una vera e propria “liberazione” qualora il grido della piazza fosse stato ripreso e rilanciato dai Fratelli Mussulmani, agitati come spettro di un nuovo Iran. Ora, per i lettori di questo blog risulterà facile ricordare come, in occasione delle passate elezioni palestinesi, dichiarammo quanto fossimo distanti dall’immaginare una Palestina unita e stretta in un sentimento religioso e per di più integralista anziché nella spinta laica e progressista che ne aveva caratterizzato la lotta nei decenni precedenti; comprendevamo con altrettanta lucidità lo sviluppo di un collante sociale destinato su binari integralisti per volontà degli stessi “difensori della democrazia” che, perpetrando ingiustizie ed umiliazioni ad un intero popolo, oltre a originarne un vero e proprio genocidio legalizzato, avevano fomentato sacche d’odio che si fingeva ipocritamente di non capire e che hanno avuto tra i loro interpreti il partito Hamas. Ebbene, per il futuro dell’Egitto ci sentiamo di fare pressappoco e con i dovuti distinguo le stesse considerazioni.
Semplicemente perché, a differenza di tutta la stampa made in Italy (ma non solo), ci chiediamo ad esempio quanto possa essere scontata la (auto)candidatura di El Baradei, al di là della popolarità che giustamente gli è stata tributata dalla sua gente. Si badi che è posto un giudizio di metodo, non di merito; ma crediamo possa essere politicamente valido chiedersi il perché di un rientro just in time dopo 20 anni di esilio volontario, costellati da un premio Nobel che non garantisce comunque una competenza gestionale politica, a maggior ragione in un periodo a dir poco critico per l’Egitto. Ugualmente dicasi per la tracotanza con la quale da ogni lato del globo si raccomandano al popolo egiziano persone, atteggiamenti, moniti e avvisaglie da parte delle stesse nazioni che fino ad un  mese fa ignoravano la gravità politica dell’azione di Mubarak e anzi foraggiavano il mantenimento dello status quo. Potremmo addirittura scomodare gli accordi bilaterali che alcuni paesi dell’Europa mediterranea hanno siglato con il governo egiziano al fine di lanciare bandi edilizi internazionali che hanno riversato sulle rive del Mar Rosso tonnellate e chilometri di cemento per la creazione di uno dei poli turistici più suggestivi per gli europei; corridoi di cemento tra labbra di deserto, aereoporti, residence, hotel a 4stelle e 3galassie. Ma si aggiunga anche la miseria dei lavoratori dell’indotto, la deturpazione ambientale e la discutibile priorità di assegnazione fondi per il turismo.

Insomma, ogni volta che si parla di Medioriente non si può prescindere dal sollevare polveroni che tengono dentro un po’ di tutto, dagli Stati Uniti al fattore religioso, da Israele alla vicinanza con l’Europa, fino alla nostra posizione geografica che ci permette di sentire l’odore delle strade egiziane che ardono; crediamo però che da noi non sia ancora matura una valutazione concreta delle realtà sociali che diventano protagoniste in questi giorni in Egitto, così come in Tunisia. Affermiamo tutto ciò con piena consapevolezza del primo limite di analisi, il nostro, ovvero di compagni dei movimenti, delle lotte sociali, di chi quotidianamente interagisce con le comunità di immigrati che guardano con impazienza agli sviluppi politici del proprio paese. Ma con altrettanta fermezza respingiamo i semplicismi e le superficialità di cui spesso anche nei movimenti si è vittime; basta parlare di sommossa ed è già rivoluzione, basta parlare di autorganizzazione del popolo ed è già buon governo. Vedere Tahrir Square stracolma di gente durante le ore del coprifuoco e con 200 morti in una settimana, ci fa un certo effetto , lo ammettiamo; ma ci auguriamo che la scelta politica che guiderà l’Egitto e gli altri paesi che sono stati interessati dalle proteste di questi giorni, sia modellata secondo esperienze reali che da un lato sappiano rispondere alle richieste di un sistema sociale più adeguato ed efficiente, dall’altro che tengano conto di quei sentimenti e di quei fattori in grado di tenere unite le spinte riformiste avvistate in tutta l’area mediterranea, capaci di scongiurare un nuovo rigurgito dispotico e di ricordare che l’autorganizzazione è uno strumento di persecuzione di un fine politico e non un finalità politica in se. Lo sciopero generale proclamato ieri in Egitto sembra muovere in questa direzione.