Il conflitto sociale, l’unica chance che ha il capitale di sopravvivere

Il conflitto sociale, l’unica chance che ha il capitale di sopravvivere

 

Come andiamo dicendo ormai da anni, questa crisi – a nostro modo di vedere – nasce da una lenta ma inesorabile perdita di diritti e potere d’acquisto dei lavoratori occidentali. Una crisi che non inizia nel 2008, o nel 2007, ma parte da molto più lontano, e solo l’assuefazione finanziaria e debitoria ha reso possibile mascherare l’enorme problema che covava il capitalismo, manifestandosi solo recentemente. La droga del consumo a debito ha potuto rimandare di qualche anno un esito che però appariva prevedibile (e infatti c’è chi lo aveva previsto, e non il solito pluricitato Roubini, che ormai ha assunto il ruolo di stregone dell’economia mondiale), e cioè una sovrapproduzione sempre più dilagante a fronte di sempre peggiori condizioni di vita di coloro che producevano. Tutto questo sta diventando, lentamente, coscienza comune. Tutti, infatti, si stanno rendendo conto di come, in fin dei conti, le loro condizioni di vita siano cambiate di poco rispetto a prima della “crisi”, e che nel 2006 non è che stavamo nettamente meglio di oggi. Di come le nostre condizioni di vita, le nostre esistenze, erano già in crisi prima che questa si palesasse come complotto finanziario alla buona e sana economia industriale che invece prosperava prima dell’uragano Lehman Brothers. Insomma, la soluzione non è tornare al 2006, o al 2000, per risolvere, anche in parte, i nostri problemi.

 

Il livello dei nostri redditi – serie storica –

 

Discorsi ripetuti fin troppe volte. Un’altra questione invece ci preme affrontare in questo caso. Ciò che ha portato a questa crisi, e cioè questa fase strutturale del capitalismo che peggiora le condizioni di vita dei lavoratori, è determinata dall’assenza di conflittualità sociale nel mondo del lavoro. Più sinteticamente possibile, il paradosso capitalista è proprio questo: solo la conflittualità nel mondo del lavoro può garantire al capitalismo stesso la sua sopravvivenza. Come è possibile? Cercheremo di tagliare con l’accetta ed essere il più schematici possibile, quindi perdonateci la generalizzazioni.

 

Il grande ciclo di lotte operaie iniziato nei primi anni del novecento e conclusosi, grosso modo, verso la fine degli anni settanta (o, se vogliamo, vari cicli di lotte differenti nei modi ma simili negli obiettivi e nel ruolo storico), ha potuto garantire un miglioramento continuo delle condizioni materiali d’esistenza di noi tutti. Non è stato il capitalismo a creare ricchezza e soprattutto la sua redistribuzione, ma una conflittualità altissima nel mondo del lavoro.

 

Questo pdf è un po’ pesante e lungo, però descrive perfettamente il calo della conflittualità operaia (tramite il rilevatore degli scioperi) che emerge evidentemente dai primi anni ’80 ad oggi.

http://milanointernazionale.files.wordpress.com/2009/03/scioperi.pdf

 

Questo scontro irriducibile fra i due mondi contrapposti del capitale e del lavoro garantiva, al mondo del lavoro, tassi di disoccupazione ridotti, forte potere contrattuale da parte dei lavoratori, e quindi, in definitiva, migliori condizioni economiche e più diritti non solo per chi era già dentro il mondo del lavoro, ma per tutta la società nel suo insieme, che beneficiava di questa conflittualità. Queste migliori condizioni garantivano alle merci prodotte un mercato di sbocco naturale. Chi produceva, tramite il suo lavoro, era lo stesso soggetto che poteva permettersi l’acquisto, cioè il consumo, di ciò che veniva immesso nel mercato. Il sistema si reggeva su questo equilibrio, e cioè la conflittualità operaia garantiva ai lavoratori salari adeguati a consumare ciò che veniva prodotto (conflittualità operaia non vuol dire solo lotte dei lavoratori, ma anche la centralità che tutto il resto della società, o almeno della politica, davano a queste lotte).

Cosa succede dagli anni ottanta ad oggi, invece? La sconfitta storica delle lotte operaie, la fine della conflittualità perenne fra mondo del lavoro e capitale, ha portato ad un arretramento impercettibile ma costante delle condizioni di vita dei lavoratori:

 

(Notate bene: da quando finisce la conflittualità operaia diminuiscono i salari e aumentano i profitti delle aziende)

 

(Notate bene anche questo: i lavoratori continuano a produrre valore aggiunto per l’economia ma ricevono sempre meno compensi per questo. Aumenta la produttività e diminuisce proporzionalmente la busta paga)

 

Stipendi lentamente sempre più esigui, quindi persistente, anche se il più delle volte impercettibile, perdita di potere d’acquisto e di conseguenza dei diritti economici e sociali del mondo del lavoro e, quindi, di tutto il resto della società. La redistribuzione della ricchezza che veniva garantita dalla conflittualità permanente ha preso a correre verso l’alto. La ricchezza prodotta, sempre più alta, veniva però a concentrarsi tutta dalla parte del capitale, e sempre meno ridistribuita nella società. La forbice degli stipendi si andava alzando sempre più vertiginosamente, anche se a piccoli passi, quelli necessari per non provocare crepe pericolose per il sistema economico e alla tenuta sociale e politica dei paesi occidentali.

Ora, fin qui, in fin dei conti, tutto bene, almeno dal punto di vista dei padroni. Non per il sistema economico, però. Il problema era che la perdita di potere d’acquisto nel mondo del lavoro determinava l’impossibilità sempre più evidente di poter consumare ciò che veniva prodotto. Il normale equilibrio fra produzione e consumo si andava alterando. Visto che i mercati di sbocco, al di là dell’occidente, non esistono, il sistema si è sempre più orientato verso le esportazioni piuttosto che sul consumo interno. Le esportazioni avvenivano, ovviamente, verso l’unico paese al mondo che aveva ancora una certa quota di ricchezza marginale spendibile per smaltire tutta la produzione in eccesso del mondo occidentale, cioè gli Stati Uniti (che infatti sono sempre stati un paese che importa tantissimo ed esporta pochissimo, in proporzione alla loro economia).

 

 

Alcuni link utili prima di andare avanti:

http://www.tradingeconomics.com/charts/united-states-balance-of-trade.png

http://translate.google.it/translate?hl=it&langpair=en|it&u=http://www.census.gov/foreign-trade/balance/

 

Questi, però, ad un certo punto del loro sviluppo, hanno incontrato sulla loro strada lo stesso problema dei paesi europei. Non potendo però spostare il loro mercato di sbocco all’estero, vista la crisi di consumo che stava nel frattempo espandendosi in Europa, e non potendo certo esportare nei paesi del terzo mondo, che ovviamente non avevano livelli di vita adeguati per poter assorbire tutto ciò che veniva prodotto, hanno mantenuto i loro livelli di spesa e di acquisto sostituendo al potere reale della moneta quello aleatorio – e immateriale – del debito. Non potendo più acquistare direttamente, i cittadini americani hanno iniziato a pagare a rate, hanno iniziato a sostituire il loro potere d’acquisto reale con un potere d’acquisto drogato, fittizio, garantito dai prestiti delle banche e dalle varie istituzioni finanziarie. Questa cosa è un po’ difficile da comprendere, visto che il più delle volte si equiparano troppo facilmente i sistemi economici europei e statunitensi, ma le differenze sono abissali. Mentre in Europa, tendenzialmente, si è soliti indebitarsi con le banche per comprarsi una casa, o al limite una macchina, accendendo mutui solo a fronte di spese oggettivamente troppo elevate per un normale stipendio, negli Stati Uniti tutto il consumo è fatto a debito. Elettrodomestici, iscrizioni alle scuole e alle università, acquisto di vestiti costosi e via dicendo, insomma in generale ogni spesa che non rientra nell’ordinaria amministrazione viene effettuata ricorrendo al prestito bancario. Bene, questo ha creato quell’enorme distorsione del mercato, per cui gli statunitensi hanno potuto continuare a comprare ciò che producevano  – e produceva l’Europa – senza che però avessero la solidità economica necessaria per farlo, creando quel vortice economico-finanziario che poi è impazzito con la crisi dei mutui del 2007.

 

 

Ecco i fatti:

Il bilancio delle famiglie è in condizioni peggiori che in qualsiasi altro punto nella storia dalla Grande Depressione. Dal 2001 al 2007, il debito per le famiglie degli Stati Uniti è aumentato a $ 14 trilioni, dai 7.000 miliardi dollari, e il rapporto tra debito delle famiglie e prodotto interno lordo è stata superiore nel 2007 rispetto a  altro qualsiasi momento dal 1929 (e sappiamo com’è finita).

L’aumento dei valori di casa durante il boom ha mascherato il sovra indebitamento del settore delle famiglie, il calo conseguente dei prezzi delle case ha rivelato quanto male haprodotto l’abbuffata del debito. default ipotecari e pignoramenti che hanno raggiunto livelli senza precedenti negli ultimi 30 anni, nel lontano i dati vanno.

Da Bloomberg.com (tradotto da google traduttore, quindi fa un po’ schifo)

 

Quindi? Ecco, secondo noi ciò è stato possibile proprio perché è venuta meno la forza che riequilibrava tutto il sistema, e cioè proprio la conflittualità del/nel lavoro. Questa è venuta meno per varie ragioni, da cause strutturali e per precisa volontà del capitale alla scomparsa del blocco socialista, per una perdita di credibilità delle forze della sinistra all’assenza di proposte politiche adeguate, allo spostamento del discorso politico collettivo che ha sempre più marginalizzato il lavoro come tematica centrale dello sviluppo e del benessere sociale. Non è però questo il momento di affrontare questi problemi. Il vero problema è che viviamo un paradosso evidente: senza conflittualità operaia il capitalismo non funziona, non riesce più a rigenerarsi, vive profonde contraddizioni che non ne genereranno il crollo, ma non lo fanno neanche più produrre ricchezza. Al contrario, solo una ripresa del conflitto sociale nel mondo del lavoro può garantire al capitalismo la sua sostenibilità, e cioè la possibilità di creare mercati di sbocco alla sua inarrestabile forza produttrice che aumenta vertiginosamente ogni anno. Ciò che produceva un operaio nel 1970 con otto o dieci ore di lavoro oggi potrebbe essere prodotto con neanche tre ore. Tutto il resto non è solo profitto aggiunto per il capitale, ma anche aumento clamoroso di produzione che però rimane invenduta. Finiremo con i padroni che ci pregheranno di mobilitarci contro di loro.

Come uscire da questa fase recessiva, senza apparenti vie d’uscita che non portino ad una riorganizzazione del capitalismo su basi cinesi? La speranza è che i livelli di vita delle popolazioni in cui è dislocata la produzione occidentale si alzino a tal punto da rendere anti-economico esternalizzare la produzione e spostarla in quei paesi. Questo garantirebbe, se non altro, la fine del ricatto per cui a lotte sindacali i padroni rispondono unicamente tramite la delocalizzazione della produzione. Il ricatto Marchionne, insomma, è effettivamente impossibile da sconfiggere, allo stato di cose presenti. Qualsiasi problema produttivo nei paesi ad alto reddito viene risolto con lo spostamento della produzione. Le conseguenze sociali che produce questo ricatto sono tutte addebitate agli stati nazionali, che infatti non hanno più strumenti per fare fronte a questa sfida del capitale globale. L’unica soluzione possibile è solo la conflittualità operaia nei paesi a basso reddito, tale da far innalzare le condizioni di vita di quei paesi e riequilibrare il sistema. Questo richiederà molti anni, anni in cui le nostre condizioni di vita tenderanno sempre più a peggiorare, inevitabilmente. Migliorare le nostre condizioni, oggi, è impossibile; possiamo solo difenderle, arroccarci per mantenere, giustamente, dei livelli di vita che il sistema politico ed economico non riesce più a garantire. Poi magari accade qualcosa, e si rimette tutto in discussione. Ma ad oggi, i motivi per essere ottimisti sono veramente pochi.

 

 

Leggetevi pure questo ottimo articolo di Joseph Halevi: http://www.nuvole.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:joseph-halevi&catid=70:numero-35&Itemid=61