Gheddafi, la Libia e l’informazione mainstream
Fra qualche giorno, a bocce ferme, proveremo a rileggerci tutti gli articoli pubblicati dai maggiori quotidiani italiani sulla vicenda libica per analizzare criticamente (ancora una volta) il modo con cui viene fatta informazione in questo Paese. Nel frattempo rileggiamoci con attenzione uno dei passaggi dell’articolo di Nigro, inviato de La Repubblica a Tripoli, pubblicato oggi: “Un medico (achi? come si chiama? in quale struttura sanitaria lavora?) ha detto a qualcuno (a chi? come si chiama? che ruolo ha in questa vicenda?) che i morti venerdì sono stati 70 (fai il giornalista, sei inviato in quella città, hai verificato l’attendibilità della cifra? Sei andato sui luoghi dello scontro? E poi ti sei mai chiesto perchè i cecchini ammazzano sempre a conto paro? Prima 100, poi 2000, dopo ancora 10000 e adesso 70.). E se solo venerdì sono stati 70 (ormai per il giornalista il numero è diventato una certezza, perchè?), da qualche parte, fra qualche giorno, fra qualche mese scopriremo che le fosse comuni c’erano per davvero (qual è la catena logica che porta a questa conclusione, da dove deriva tanta sicumera?), sono state scavate e riempiute in fretta, adesso.” Bell’esempio di giornalismo, ormai tra la notizia e i fatti non esiste più alcun legame, la notizia è vera in sè perchè corrisponde a quello che l’opinione pubblica vuol sentirsi dire, perchè Gheddafi è un dittatore e quindi i massacri dei civili sono plausibili, probabili, e al cronista tanto basta, non c’è più bisogno di riscontri. Eppure, visto che da qualche giorno alcuni giornalisti italiani sono a Tripoli, sarebbe interessante sapere da loro perchè non è stata scattata una sola foto dei quartieri colpiti dai presunti bombardamenti aerei della città che tutti i media avevano dati come certi. Passi (si fa per dire) per i “10.000 cadaveri” nascosti nelle famigerate “fosse comuni”, ma occultare dei palazzi sventrati dagli ordigni lanciati dai un caccia non dev’essere poi così facile, o no? A chiusa di questo post e per evitare equivoci o possibili strumentalizzazioni, lo ripetiamo ancora una volta: come collettivo, pur riconoscendo il ruolo svolto dalla Libia nella lotta contro il colonialismo negli anni seguiti alla rivoluzione del 1969, già da moltissimo tempo non proviamo più alcuna simpatia per Gheddafi e il suo regime. E però non facciamo neanche il “tifo” per gli altri, senza sapere chi essi siano e che cosa vogliano. Perchè ormai è chiaro che le cose sono ben diverse da come ce le raccontano e soprattutto sono ben diverse da quanto è successo in Egitto e, soprattutto, in Tunisia e perchè quando vediamo le bandiere monarchiche e filocoloniali ci viene uno strano senso di allergia. Di seguito, come contributo a questo ragionamento, proponiamo un bell’articolo uscito ieri sul Manifesto che, da quando ha un giornalista sul posto, sembra quanto meno aver addrizzato il tiro.
da il manifesto, 26 febbraio 2011
Reportage di Maurizio Matteuzzi da Tripoli
Il morto ha parlato e sulla Piazza verde di Tripoli ha detto di nuovo: «Combatteremo e li sconfiggeremo». Il colonnello Gheddafi, dato per morto nel primo pomeriggio di ieri da due emittenti arabe del Dubai, la Arabiya e la Mbc, nel tardo pomeriggio di ieri è resuscitato ed è arrivato inatteso nella storica piazza tripolina per ripetere a una folla di suoi sostenitori (molto entusiasta ma non oceanica per la verità) che da ore l’occupavano gridando slogan e inanellando caroselli a tutto clacson, che lui non mollerà, che aprirà gli arsenali per dare «armi al popolo» e stroncare la rivolta interna e le eventuali tentazioni «dell’Europa e dell’America» verso un intervento armato, per quanto indorato come «umanitario», incredibilmente «non escluso» a priori dal portavoce del presidente Obama. A meno di colpi di scena improvvisi, sempre possibili in una situazione così magmatica, la crisi libica rischia di avvitarsi in scenari sempre più drammatici. Su Tripoli ieri soffiava un vento gelido che agita il mare e ritarda la partenza dei boat people verso l’Italia. Forse è questo lo stesso vento del Maghreb che ha già spazzato via il tunisino Ben Ali ed l’egiziano Mubarak dopo epiche rivolte popolari (peraltro risolte dall’esercito), e che probabilmente spazzerà via anche Gheddafi dalla Libia. Perché Muammar Gheddafi oltre ai suoi errori e prima di aver perso la guerra sul campo – che lui dice essere ispirata da «al Qaeda» e diretta a fare della Libia «un nuovo Afghanistan» alle porte dell’Europa -, sembra aver perso la guerra dell’informazione. Qui i libici, molti libici, ti fermano per la strada per denunciare il ruolo giocato, soprattutto da Al Jazeera e da Al Arabiya (che oltretutto non hanno neanche una redazione qui) nelle guerra dell’informazione. O della disinformazione. Al Jazeera, liquidata come il portavoce di bin Laden dagli occidentali quando lavorava sulla guerra americana in Iraq, «eroe» della rivolta popolare nella piazza Tahir del Cairo, sulla Libia si è prodotta in una serie di scoop a senso unico e spesso inventati. Ma non per questo meno presi per buoni e rilanciati come oro colato dai media scritti e televisivi dell’Occidente (basta vedere i principali giornali italiani…). Alcuni esempi di questi giorni o di ieri, rivelatori. Nel primo pomeriggio l’annuncio della morte di Gheddafi, di cui si è detto. Poi la storia dei bombardamenti che l’aviazione del Colonnello avrebbe compiuto a più riprese, anche in questi giorni, sui quartieri ribelli di Tripoli, suscitando la (giusta) indignazione internazionale. Le bombe fanno rumore, quando scoppiano si sentono. E nessuno, non solo i libici di parte gheddafiana, ha sentito esplodere bombe in città. Badria Bargawi, una ginecologa libica, che ha studiato italiano e vede le tv italiane, dice che quel giorno le hanno telefonato allarmatissimi dei suoi familiari che stavano sentendo la notizia delle bombe scaricate sul quartiere tripolino di Fascilum, nel centro della capitale, proprio mentre lei se ne stava seduta a prendere una bibita in un caffé di… Fascilum. L’altro scoop delle «fosse comuni», le cui foto hanno fatto il giro del mondo sulle prime pagine di (quasi) tutti i giornali. Ieri siamo stati anche noi, giornalisti italiani, sul luogo del delitto, a Tagiura, un quartiere periferico di Tripoli, sul lungomare. Le fosse comuni – almeno lì – semplicemente non esistono, si tratta di un normale cimitero islamico con lavori in corso sulle normali tombe. Terzo scoop, di ieri. Un flash d’agenzia, rilanciato con grande evidenza sulle pagine online dei giornali, afferma che i rivoltosi hanno espugnato «l’aeroporto militare di Mitiga», sul lungomare, nella loro avanzata ormai alle porte della capitale. Siamo stati anche noi, giornalisti italiani, all’aeroporto militare di Mitiga, a fianco della grande base di Wheelus, costruita dagli italiani, passata poi agli inglesi e finita agli americani che dovettero lasciarla dopo l’avvento di Gheddafi. L’aeroporto appare del tutto tranquillo e sorvegliato fuori dai militari di guardia, dei ribelli non c’è traccia. Ora è chiaro che noi in qualche misura siamo embedded e vediamo quel che i libici vogliono che vediamo (è sconsigliabile muoversi da soli), ma queste sono cose difficili da non vedere e impossibili da smentire. Questo non significa che non si trovino domani fosse comuni, o che l’aviazione di Gheddafi non bombardi quartieri della capitale, o che quell’aeroporto non cada prima o poi nelle mani dei ribelli. Ma, per il momento, quelle fosse comuni di Tagiura non sono fosse comuni, quel quartiere di Fascilum o altri quartieri della città non sono stati bombardati, quell’aeroporto di Mitiga non è stato espugnato dai ribelli. Lo confermano anche, come si suol dire in questi casi, «alte fonti diplomatiche» italiane qui a Tripoli (impegnatissime nelle operazioni di evacuazione di nostri connazionali), interrogandosi anche loro sui perché e percome di questa campagna di disinformazione. Ragioni per cui i libici di parte gheddafiana si chiedono cosa ci sia dietro alla campagna mediatica e rispondono, forse con un po’ troppo di semplificazione: il petrolio e al Qaeda, ossia i fondamentalisti islamici che sarebbero dietro alla rivolta di Bengasi, oltre che l’odio inveterato che Gheddafi si è «conquistato» in tanti, troppi anni di potere eterodosso, che era stato messo in sordina per via del suo «rinsavimento» nell’ultimo decennio quando è stato riammesso in società, che è riesploso ora in tutta la sua violenza. Questo porta al risultato bizzarro che l’Italia è invisa a entrambe le parti libiche in guerra. Ai ribelli perché prima gli italiani sono stati «complici» e poi, adesso, «spettatori»; ai governativi perché prima abbiamo fatto gli amiconi (che fa rima con Berlusconi ma non solo) e adesso che Gheddafi è alle corde lo ricopriamo di insulti e anatemi (beduino, pagliaccio, buffone, assassino…) a tutto campo: politico («ha superato ogni standard di umana decenza», ha detto Obama) e umanitario (per via del trattamento ai potenziali migranti imposto dai nostri governi), fino al razzismo più becero. La situazione, come si diceva, è estremamente magmatica. Qui a Tripoli dicono che nel paese c’è «qualche problema» ma la situazione non è sull’orlo del precipizio come viene dipinta e il leader alla fine riprenderà il pieno controllo politico e militare. In fin dei conti non si tratta che di quattro gatti seguaci di bin Laden, quattro nostalgici che hanno rispolverato addirittura la bandiera di re Idris, lo zimbello degli inglesi, di quattro ragazzini «drogati» da facebook e «da pillole allucinogene nel nescafé». Non sembra proprio che sia così. Ma è difficile sapere con un minimo di fondamento come stiano davvero le cose, se ci siano margini o possa tutto sprofondare ancor di più all’inferno. Ieri hanno portato noi giornalisti italiani nella grande moschea dalla Predicazione islamica, una ex basilica cattolica nella Piazza Algeria, a due passi dalla Piazza verde. Era il giorno e l’ora della preghiera, un giorno difficile in cui poteva succedere di tutto e si vociferava di possibili «sfondamenti» dei rivoltosi anche qui nella capitale. Siamo andati alla moschea della Piazza Algeri, che era gremita di fedeli e si sentivano le parole di un predicatore che, ci è stato detto, era abbastanza asettico e invocava la pace fra i libici. Nessun problema. Ma all’uscita un 100-150 fedeli hanno si sono raggruppati sulle scale fra la moschea e la piazza e hanno cominciato a gridare a squarcdiagola slogan che noi non capivamo ma che i nostri accompagnatori stentavano a tradurci: contro Gheddafi? No, invocazioni ad Allah Akbar. Sarà. Però poi quei 100-150 si sono diretti in corteo verso la vicinissima Piazza verde, già presidiata dai militanti di Gheddafi e allora si è cominciato a sentire il crepitio dei colpi di kalashnikov. Via tutti di corsa sul bus, i nostri accompagnatori ci hanno riportato subito in albergo. Hanno sparato in aria per impedire che i due gruppi venissero a contatto, la spiegazione ufficiale (ma c’è anche chi dice che ci sono stati uno o tre morti). Domani sarà di certo un’altra giornata di scoop. Una campagna così di disinformazione, grossolana e scientifica insieme, «l’avevo vista solo con Saddam Hussein e le sue armi di distruzione di massa», dice la ginecologa Badria Bargawi, sconsolata e indignata. E si è visto come è finita in Iraq.