Fornero e il reddito di cittadinanza

Fornero e il reddito di cittadinanza

 

L’uscita della ministra Fornero sul reddito garantito ha molto di comico. Serviva il governo delle banche e delle tecnostrutture europee per proporre una di quelle parole d’ordine da centro sociale anni 2000, e cioè il reddito di cittadinanza, che noi da sempre guardiamo con sospetto.

Qualche giornale e qualche commentatore politico l’ha chiamato salario minimo, non riuscendo neanche a cogliere la diversità fra un salario minimo che il padrone dovrebbe essere obbligato per legge ad erogare, e invece il reddito garantito, che non riguarda la sfera del lavoro ma quella dei consumi. A dire il vero, neanche la ministra del welfare secondo noi capisce bene la differenza, probabilmente digiuna dell’enorme letteratura prodotta in questi dieci anni sul reddito di cittadinanza. Tonnellate di libri, saggi, pamphlet, articoli, siti, convention per spiegare a tutti che non si trattava di una proposta riformista, ma del grimaldello col quale scardinare il sistema capitalistico.

Qualche commentatore, non sapendo bene cosa dire, ha parlato dunque di salario garantito, qualcun altro di salario minimo, altri invece di reddito minimo e altri di reddito garantito. Disinteressandosi del fatto che ognuna di queste definizioni presuppone mo(n)di differenti di trattare l’argomento *sostegno al reddito*.

Non è una caso però che sia proprio il governo della finanza internazionale ad esprimersi sul reddito garantito. Proprio perché coerente con quella visione del mondo per cui l’economia è il solo frutto della domanda e dell’offerta di  merci, quindi del mercato. Con al centro il grande protagonista di questa visione ideologica, il consumatore; o, nella versione di sinistra, il cittadino. Una visione feticistica, nel migliore dei casi socialdemocratica, che parla e vede solo il linguaggio della redistribuzione della produzione.

Non è un caso neanche che proprio il diritto ad un reddito di cittadinanza venga da quei pezzi di movimento che da anni hanno sostituito categorie sociali effettive (la divisone in classi determinata dalle condizioni di lavoro e dal possesso dei mezzi di produzione), a categorie sociali create artificialmente (la cittadinanza, la moltitudine).

Alla base di tutti i ragionamenti, il medesimo presupposto: è scomparso, o e in via di estinzione, il lavoro in quanto unico strumento da cui estrarre plusvalore, e dunque profitto, dal capitale investito. Nella versione di sinistra, il profitto non sarebbe più una variabile dipendente dal lavoro salariato, ma una costante che il capitale riesce a rigenerare in ogni aspetto della nostra vita, sempre meno legata alla produzione e sempre più socializzata e invadente. Il profitto non viene più creato nelle otto ore di lavoro, ma anche, e soprattutto, nelle restanti sedici della nostra vita da consumatori. Nella versione di destra invece, il capitale riesce a rigenerare sé stesso e a moltiplicarsi solo grazie al livello di consumo e al ruolo dei mercati finanziari, con i quali aumentare all’infinito i propri investimenti a scapito del lavoro vivo.

Privato del suo ruolo storico, il mondo del lavoro viene così derubricato, e l’obiettivo politico principale diviene quello di organizzare i cittadini nel tempo libero (che, secondo questi, non esisterebbe più, ma risulterebbe sempre parte del ciclo di “produzione continua di profitto”). E’ un discorso assolutamente condiviso e trasversale ad ogni schieramento politico, ed è il principale motivo per cui è scomparsa dal dibattito pubblico la questione lavoro, sostituita come abbiamo visto dalle categorie e analisi più varie. Qualcuno, come in certe profezie che si autoavverano, ha scambiato l’assenza di protagonismo politico del lavoro per la fine del lavoro salariato, producendo di conseguenza le teorie più assurde per cui nessuno produce più nulla, nessuno lavora più e tutti passano il tempo a leggere libri e a giocare sui social network (in sostanza, ad autogestirsi il proprio tempo di vita), continuando però, anche in questo modo, a generare profitto.

Non è neanche un caso che questo reddito garantito sia già presente – o stato proposto – in alcune regioni italiane, nonché perfettamente in funzione da anni in numerosi paesi del nord Europa (Belgio, Francia, Germania, Svezia, Norvegia), senza che siano avvenuti quei cambiamenti epocali che avrebbero dovuto portare alla dittatura del proletariato, o quantomeno allo sconvolgimento dei rapporti economici, o come minimo ad un miglioramento delle condizione di classe. Anzi, questi sono proprio i paesi protagonisti dell’imperialismo europeo, visto che un forte welfare statale è possibile, in questi casi, solo con lo sfruttamento della mano d’opera nei paesi del secondo e terzo mondo, per poi socializzare i profitti nelle madri patria.

Detto questo, però, rimane evidente che mentre per Fornero e il governo Monti questa proposta rientra coerentemente con tutto il loro percorso professionale e politico, ci stupiamo ancora di come possa essere avallata acriticamente da parti di movimento. Non è il problema della proposta in sé (sulla quale si può ragionare, se presa come proposta di rafforzamento dello stato sociale), ma della concordanza di letture di fondo dei rapporti sociali ed economici. E’ questa la vera questione: dopo aver gettato nel cestino un secolo di analisi sociale, ciò che è venuto dopo non è stata una nuova teoria, ma l’appropriazione di teorie già espresse dall’intellettualità borghese e fatte proprie dalla maggioranza dei governi capitalisti dell’Unione Europea: cioè la teoria della fine del lavoro e dunque del cittadino/consumatore come unico referente sociale e unico attore sul quale lavorare politicamente. La mancanza di una idea forte di società produce l’assenza di proposte indipendenti, proposte che invece vengono di continuo mutuate dal dibattito politico mainstream.

Insomma, in conclusione, la vera alternativa a tutti i governi Monti che ci hanno governato e continueranno  a governarci non è sul livello delle proposte ma in quello dell’analisi. Se partiamo da un’analisi di classe, torneremo a produrre proposte di classe; se rimaniamo succubi di analisi post-socialistiche, partoriremo solo proposte intimamente anti-socialistiche, quindi tendenzialmente liberistiche. Tertium non datur.