Febbraio in Venezuela. Mese di ricorrenze e riflessione

Febbraio in Venezuela. Mese di ricorrenze e riflessione

 

Inauguriamo oggi, con questo articolo, una rubrica sul Venezuela e sul Latinoamerica che settimanalmente (così almeno ci auguriamo) ci accompagnerà nei prossimi mesi.
Questa rubrica ripubblicherà i pezzi che usciranno sulla pagina Caracas ChiAma, parte integrante del progetto di controinformazione e “guerrilla comunicacional”, come piace definirla ai compagni sudamericani, posto in essere dalla Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana. Controinformazione che diventa una delle armi più affilate da utilizzare contro l’imperialismo USA-NATO che proprio in questo momento sta tentando di destabilizzare il potere popolare costruito in Venezuela.
Pubblichiamo quindi questo articolo di Geraldina Colotti, una grande compagna e giornalista, collaboratrice de Il Manifesto e de Le Monde Diplomatique, nonché una delle poche voci autorevoli sul Latinoamerica del giornalismo nostrano.
Buona lettura!

***

di Geraldina Colotti per Caracas ChiAma

Febbraio, in Venezuela, è un mese di ricorrenze e di riflessione. Si ricordano due date, il 4 e il 27, fondamentali per ricostruire il tracciato della rivoluzione socialista bolivariana: una formula che governa dal dicembre del 1998, quando il movimento diretto da Hugo Chávez ottenne dalle urne un’ampia e inattesa maggioranza.

Il 4 febbraio del ’92, un gruppo di ufficiali progressisti, guidati dall’allora tenente colonnello Chávez dà l’assalto ad alcune caserme, in diverse parti del Venezuela. Il tentativo fallisce, ma rimane inciso nella coscienza del paese come una promessa:“Compagni, purtroppo la rivoluzione è fallita… Per ora”, dice infatti Chavez prima di essere condotto al carcere di Yare. Due anni dopo, un’amnistia lo rimette in circolazione, e gli consente di riprendere il progetto che quel tentativo ha contribuito ad amplificare.
Che cos’è stato il 4 febbraio e perché si è determinato? Se il chavismo non avesse vinto le elezioni e cambiato il corso della storia, quel tentativo sarebbe stato descritto come uno dei tanti putch latinoamericani contro un governo democratico, che all’epoca era quello di Carlos Andrés Pérez, rappresentante del partito Accion Democratica (centro-sinistra). D’altronde, ancora oggi, quando viene accusata di tramare colpi di stato contro il governo legittimo, l’opposizione venezuelana risponde ricordando i trascorsi di Chávez e il 4 febbraio. Come dire: da che pulpito… E per i grandi media internazionali, l’ex presidente venezuelano – che ha governato fino alla sua morte, il 5 marzo del 2013 – è rimasto un “dittatore golpista”, e quella che ha lasciato non è una democrazia, ma un “regime”.

A insorgere contro un sistema di potere asfittico, e subalterno al neoliberismo imperante allora nel Latinoamerica, non è però stato un manipolo di militari golpisti con mire autoritarie. Quelli – per intenderci – che hanno sostenuto dittatori allevati dagli Usa nella tristemente nota Scuola delle Americhe: rampolli delle oligarchie a guardia dei loro privilegi. Si è trattato invece di un’insurrezione civico-militare che ha visto in azione combattivi studenti di sinistra, ex militanti delle formazioni armate degli anni ’60-’70, movimenti di resistenza in cerca di uno sbocco politico. Che ci hanno poi provato ancora nel novembre dello stesso anno. Molti degli ufficiali del 4F – a partire dallo stesso Chávez – erano stati fortemente influenzati dalla cultura marxista, prevalente nel formidabile ciclo di lotta – anche armata – che ha interessato il Venezuela dagli anni ’60 ai primi anni ’80. In tanti avevano scelto di schierarsi nel campo degli oppressi e non in quello degli oppressori: a partire dalle mobilitazioni che, sotto l’egida del Partito comunista e della sinistra, avevano portato alla cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez. Un filo rosso che ha consentito al chavismo di rendere solida l’unione civico-militare e di spostarne il peso a vantaggio del socialismo e delle classi popolari. Fra tutti i paesi del sud del mondo che l’hanno sperimentata (per esempio nel mondo arabo), il Venezuela è l’unico in cui continua a funzionare. Durante le commemorazioni di quest’anno, alcuni testimoni hanno ricordato come la polizia politica non abbia fatto sconti, uccidendo a sangue freddo manifestanti che si erano già arresi. Quella di “risolvere” le proteste sparando sulla folla, era peraltro pratica assai corrente nella IV Repubblica. Giova ricordare che, negli anni delle democrazie consociative (nate sul patto di alternanza tra centro-destra e centro-sinistra che escludeva dal governo sia i comunisti che gli ufficiali progressisti), il Venezuela ha conseguito un triste primato: quello delle desapareciones. Prima ancora che nell’Argentina dei militari o nel Cile di Pinochet. Il 27 febbraio del 1989, era stato sempre Carlos Andrés Pérez (detto Cap), appena eletto per un secondo mandato dopo la sua prima esperienza (1974-’79) a consentire all’esercito di sparare sulla folla. Una folla inferocita per il “paquetazo”, il pacchetto di misure-capestro dettate al paese dalle grandi istituzioni internazionali, era allora scesa dai quartieri poveri per prendere d’assalto supermercati e depositi. E aveva ricevuto piombo, invecedi cibo. La rivolta detta Il Caracazo. Ufficialmente, 400 morti. In verità, oltre 3.000 vittime, sepolte nelle fosse comuni clandestine, com’è stato documentato nel corso degli anni: “Il Caracazo è stata la scintilla che ha messo in moto l’incendio del 4 Febbraio”, dirà in seguito Chávez.

La destra di opposizione cerca oggi di speculare anche su quella rivolta, capovolgendola di segno. E lancia allarmi sull’arrivo di un nuovo “paquetazo”, deciso dal governo socialista per risolvere le difficoltà prodotte dalla guerra economica. Che ovviamente non può arrivare, perché il governo rappresenta gli interessi di coloro a cui da sempre il capitalismo ha destinato piombo anziché cibo. Maduro e il suo “governo della strada”, occupano le fabbriche insieme ai lavoratori. Espropriano le grandi imprese, non licenziano gli operai.
Ma tant’è. Il dominio del capitalismo si basa sulla menzogna: sull’occultamento della vera natura dello sfruttamento e dei meccanismi di accumulazione. Una menzogna alimentata dal potere di condizionamento dell’informazione – una merce al servizio delle grandi concentrazioni editoriali e degli interessi di guerra e di rapina che sostengono. Una menzogna che chiama “terroristi” i comunisti e i rivoluzionari che, nel corso della storia, hanno organizzato il diritto dei popoli alla rivolta. Che definisce “regime” un governo contrario agli interessi coloniali e celebra fior di assassini come campioni di democrazia. Che dietro il furto di linguaggio, di concetti e di storia, nasconde il furto di futuro delle giovani generazioni.

Smascherare questi interessi significa rendere espliciti quelli di chi li subisce, da un lato all’altro del pianeta. Indica la portata dello scontro e la necessità dell’azzardo. Implica una scelta di campo e l’assunzione delle conseguenze. Senza riserve o scappatoie. Senza retorica o vittimismo. “Rodilla en tierra”, dicono i socialisti venezuelani, ovvero “Ginocchio a terra”: non per chiedere pietà al nemico, ma per meglio prendere la mira.