Contro l’Europa delle guerre

Contro l’Europa delle guerre

La manifestazione del 16 gennaio parte da una prima constatazione simbolica e materiale. Sono passati 25 anni esatti da quando, nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991, l’amministrazione americana di Bush padre scatenava la prima aggressione imperialista post guerra fredda. Mentre il campo socialista sovietico si andava sgretolando, la potenza americana, rimasta sola al governo del pianeta, lanciava insieme a una cordata di fidi alleati, compreso il nostro paese, tonnellate di bombe intelligenti contro l’Iraq di Saddam Hussein, fino a poco tempo prima alleato dell’imperialismo americano nella guerra contro l’Iran sciita di Khomeini. Da quel giorno si apriva di fatto una nuova fase storica, paradossalmente ancora poco compresa dall’élite intellettuali della sinistra. Proprio nel 1991, con la fine del campo socialista, lo scioglimento del Patto di Varsavia e la fine dell’Urss, la guerra irrompe nel cuore dell’Europa, quella guerra sempre minacciata nei confronti del socialismo e finalmente dispiegata con la scomparsa del competitor politico. Eterogenesi dei fini? La Jugoslavia socialista si disintegra in una serie di guerre continuate per tutto il decennio, fomentate, organizzate, armate dalla Germania appena riunificata, motore del nascente polo liberista europeo.

Sono gli anni in cui inizia a delinearsi il progetto imperialista europeo, della sua organizzazione economica e finanziaria, e della sua sovrastruttura politica e culturale. I proclami del progressismo illuminato rilanciavano un nuovo mondo di benessere e di pace, di “fine della storia” perché l’impero del male era stato sconfitto, ma la narrazione si infrange contro la dura realtà. La storia espunta dalla porta rientrava pronta dalla finestra sotto le forme dell’aggregazione religiosa. La tendenza alla guerra si andava facendo sempre più evidente, caratterizzante la nuova epoca sia ad est dell’Europa sia nel Medioriente. L’instabilità, la morte, la distruzione di paesi interi, il ritorno del colonialismo, chiude il secolo delle rivoluzioni. Ma la guerra esterna portata in altri paesi si diffonde a largo raggio e torna come un boomerang anche nel fortino occidentale, nel cuore della metropoli (neo)coloniale. Il nuovo millennio si apre con l’11 settembre, sancendo un punto di non ritorno e al tempo stesso reintroducendo il conflitto ineliminabile tra colonizzatori e popolazioni subalterne.

Si apre una nuova stagione durissima di guerre, a partire dall’Afghanistan invaso dagli Usa e dalla solita coalizione occidentale, e poi l’invasione e occupazione dell’Iraq. Senza parlare di tutte le guerre svolte per interposta persona, con l’organizzazione di colpi di stato, opposizioni armate come in Libia e in Siria, repressioni etniche, faglie religiose e settarie.

Dopo 25 anni la guerra oggi si fa parte costituente della vita e delle abitudini anche delle popolazioni occidentali, abituate fino a poco tempo fa a vedere la guerra e la morte come fatto lontano, appena percepibile ma subito rimosso dalla coscienza quotidiana. I fatti di Parigi dello scorso novembre in qualche modo hanno accelerato un processo in corso da molti anni, aprendo una fase nuova, le cui conseguenze sono intuibili ma non chiare.  L’abbiamo detto pochi giorni dopo quei fatti: ci sembra abbastanza ovvio che non siamo davanti ad un fenomeno tendenziale, parziale, carsico, ma ad una nuova fase di intensificazione della dimensione della guerra. La guerra è in corso in tutta l’area del Mediterraneo e si avvicina con le sue forme asimmetriche, tramutando ogni cosa in un obiettivo sensibile, potenzialmente attaccabile, senza confini o retrovie possibili. La guerra interna, sociale, contro il mondo del lavoro, si alimenta della guerra neocoloniale che viene portata all’esterno dei nostri sempre meno impermeabili confini. Lo stato d’eccezione, anticipato nella sua forma ufficiale dalla dichiarazione dello stato di emergenza francese (emergenza poi divenuta stabile e introdotta nella Costituzione), tradisce e svela i grandi cambiamenti che sono avvenuti in larga parte nel campo della rappresentanza politica e del terreno democratico legale. Oggi anche ciò che un tempo veniva considerato acquisito (come taluni diritti di cittadinanza) viene messo in discussione, negato, ritirato; ma ciò avviene non perché siamo sotto attacco, ma siamo sotto attacco perché l’ordine liberista-imperialista, in avvitamento critico per asfissia di profitti, non ha più un vitale interesse a generare il consenso delle proprie masse subalterne. In questa crisi generale, in cui la guerra è una risposta possibile e necessaria, è prioritario disinnescare, azzerare, disattivare nella società ogni forma di dissenso. E’ questa la “militarizzazione” dei rapporti politici che è il vero frutto sedimentato dello stato di eccezione permanente in cui siamo stati forzatamente calati. La dimensione del conflitto deve essere il più possibile narcotizzata e/o rivolta altrove e in ogni caso espunta dalla società. Al limite, riversata verso presunti nemici “esterni” ai “valori dell’occidente”: in tal caso il conflitto è non solo solleticato, ma anche bonariamente accettato come strumento per la riduzione dei diritti delle popolazioni subalterne. La logica securitaria ormai pervasiva nel nostro tessuto sociale è il veleno con cui si tenta di rispondere alla guerra permanente. Stretta repressiva che non mira all’espulsione dei subalterni, ma al loro contenimento e alla loro messa a profitto. Nessun capitalista degno di questo nome immagina oggi l’espulsione di carne da lavoro prona ad ogni ricatto: è la continuità del ricatto la benzina dell’ondata xenofoba, che punta alla limitazione dei diritti sociali dei migranti, non alla loro espulsione.

La manifestazione di domani è un piccolo segnale, una scommessa azzardata. Avviene ribaltando il rapporto tra movimento reale e sfogo pubblico. Non c’è alcun movimento reale contro la guerra, e quello che era il “movimento pacifista” oggi è il principale corresponsabile dell’assenso liberale alle proxy wars. È il tentativo di rianimare un cadavere, tornare ad agitare la parola della pace in un mondo che va sempre più verso la guerra generalizzata. Di certo la riuscita assolutamente inaspettata dell’assemblea pubblica alla Sapienza ci rende ottimisti. Numerose organizzazioni, partiti, sindacati, collettivi, pezzi di movimento, e soprattutto comunità migranti, hanno espresso una condivisione di fondo netta contro ogni guerra e contro le guerre imperialiste in Medioriente in particolare. Un’assemblea che ha visto più di un centinaio di partecipanti, fatto di questi tempi e in questa città assolutamente da non sottovalutare.

Dobbiamo avere il coraggio e la costanza di denunciare il regime dell’emergenza nelle nostre periferie, legando lo smantellamento dei diritti sociali alla logica della “legalità” emergenziale. Non c’è più tempo per girarsi dall’altra parte, coltivando orticelli già travolti dalla ruspa della crisi e della guerra. E’ l’ora di mobilitarsi.