Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Un’odissea partigiana di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano

«Triangoli della morte», «foibe», «vendette partigiane», «scie di sangue». Sono questi i termini in cui, negli ultimi anni, è stato presentato il difficile passaggio dell’Italia tra la guerra e il dopoguerra. La Resistenza comunista è stata sottoposta a un continuo revisionismo storico: se la «liberazione» è continuata a essere un momento a cui tutto il mondo politico e tutti i media si rifanno, almeno a parole, essa è stata confinata e sminuita in una dimensione di unità nazionale contro il nemico nazista. Si è così affermata la visione di una libertà (più che di una liberazione) senza resistenza – emblematica la trasmissione condotta da Fabio Fazio lo scorso aprile, in occasione del settantesimo anniversario, durante la quale Roberto Saviano ha celebrato nel suo peana il contributo del 2° corpo d’armata polacco (quello che, dal 1944 al 1947, si macchiò di continui assalti e continue aggressioni contro le sedi comuniste e socialiste e i loro militanti, oltre che di reati di ogni genere contro la popolazione civile italiana) alla battaglia di Montecassino, tra l’altro avvenuta un anno prima dell’aprile 1945 –, senza alcun contenuto di lotta di classe e, soprattutto, senza comunisti. Essi sono stati rappresentati sempre più spesso come banditi assetati di sangue, assassini, rapinatori, i cui crimini sarebbero stati rimasti coperti per decenni a causa di una presunta egemonia culturale e politica che avrebbero avuto nel paese partire dal dopoguerra. Un silenzio rotto che sarebbe stato rotto, infine, dall’«eroica» opera di giornalisti «coraggiosi» come Giampaolo Pansa. Le cose, però, non sono andate esattamente così. Anzi.
In questo contesto di revisionismo dilagante, il recente libro di Mimmo Franzinelli e di Nicola Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio (Feltrinelli 2015, 18 euro) riporta gli eventi nel loro giusto contesto, facendo emergere una realtà ben diversa da quella suggerita dai media: la realtà, come scrivono nelle pagine conclusive del volume, di «un’Italia schizofrenica, discriminatrice, irriconoscente. Comprensiva e clemente verso chi nel 1943-1945 si è battuto con i nazisti, ostile e punitiva con gli avversari del Reich e della Repubblica sociale» (p. 210).
Contrariamente a quanto si cerca comunemente di affermare, infatti, la rappresentazione comunista della Resistenza non è mai stata maggioritaria nel paese: sia sufficiente pensare ai costanti divieti dei raduni dell’Anpi disposti dalle autorità sul finire degli anni ’50. Anzi, nel secondo dopoguerra furono arrestate e condannate centinaia di ex partigiani comunisti, per episodi, avvenuti durante la guerra civile, di cosiddetta «giustizia sommaria» contro civili accusati di spionaggio e di collaborazionismo o per uccisioni di aderenti alla Repubblica sociale italiana. O per altri episodi di violenza avvenuti durante quella che efficacemente lo storico Mirco Dondi ha definito «lunga liberazione»: la liberazione, infatti, non è un momento ma un processo e non si può pensare che la firma di un trattato porti automaticamente, da un giorno all’altro, la fine delle ostilità e degli odi che avevano determinato. Questo vale soprattutto per la guerra civile italiana che, ben lungi da essere limitata al 1943-45, era in realtà iniziata durante il biennio rosso con gli assalti dei fascisti contro comunisti e socialisti, col beneplacito (e il sostegno, anche economico) del padronato di cui erano al più o meno consapevole servizio: una guerra civile più che ventennale, dunque. Come ben scrivono lo studioso del fascismo e del dopoguerra Franzinelli e il magistrato Graziano,

il ritorno alla pace è turbato da vendette e ritorsioni che da sempre accompagnano la caduta delle dittature, epilogo di sanguinosi scontri intestini. Dopo mesi di vita alla macchia, è difficile tornare d’un tratto alla normalità, stante l’impatto traumatico della guerra su tanti giovani “ribelli”, che reagiscono a loro modo – anche con derive estremiste e giustizialiste – a gattopardismi e restaurazioni. […] Vi è poi l’emergenza sociale. Chi torna dal fronte, chi scende dalla montagna, chi rimpatria dal lager fatica a trovare lavoro. La ripresa della guerra di classe nelle fabbriche e nelle campagne è arginata dalla polizia e dai carabinieri, spesso brutalmente, con feriti e morti. […] Insensibili al “rompete le righe”, ci si considera permanentemente mobilitati contro il nemico di classe, in una guerra privata fatta di ritorsioni e vendette, colpi di mano e imboscate. [pp. 7, 11-12]

«Gattopardismi» e «restaurazioni», appunto. Tra i prefetti, tra i questori, tra i magistrati, nella polizia e nei carabinieri, l’epurazione è pressoché inesistente: la discontinuità tra fascismo e democrazia è, in questi ambiti, quasi impercettibile. Come ha scritto lo storico Claudio Pavone nel suo scritto fondamentale sulla continuità dello Stato attraverso il fascismo, «la magistratura non fu preventivamente epurata; anzi, si ebbe una convergenza di sforzi per accreditare l’idea che di quella epurazione non ci fosse reale necessità» (C. Pavone, Alle origini della repubblica, p. 130).
A questa situazione si accompagnava la disapplicazione dell’amnistia del novembre 1945 diretta ai «reati politici antifascisti», commessi prima e dopo l’avvento della dittatura, «in lotta contro il fascismo e per difendersi o sottrarsi alle persecuzioni»: essa non fu quasi mai applicata ai partigiani, che anzi cominciarono con sempre maggiore frequenza a essere arrestati in base a denunce e rapporti redatti dai funzionari della Repubblica sociale italiana, che li consideravano banditi e criminali comuni. Della cosiddetta «amnistia Togliatti» del giugno 1946 – grazie all’intervento di molti giudici che, del resto, avevano fatto carriera durante il regime –, poi, giovarono quasi esclusivamente i fascisti: a otto giorni dalla sua entrata in vigore, ne avevano già beneficiato 7.106 fascisti (e solo 153 partigiani), scatenando le rimostranze degli ex partigiani contro Togliatti. Queste rimostranze sono espresse in lettere come questa:

Gentilissimo compagno Togliatti,
credevo che nell’evento della Repubblica Italiana ritornasse ogni bene e tranquillità, ma per il momento peggio che prima, per forza maggiore ti invio questa mia lettera a nome di tutti i Partigiani che si trovano qui in Carcere a Asti. Tutti noi desideriamo sapere perché siamo stati esclusi dall’amnistia o condono, mentre i nostri traditori li ài mandati in libertà?? Questo è il nostro posto che ci hai promesso? Ricordati che se noi siamo qui in Carcere è colpa Vostra che ci avete lasciato in mezzo a una strada, senza lavoro, senza pane e senza casa. E per questo siamo stati spinti a commettere una mancanza, per mangiare. Ricordati che è la seconda volta che ci abbandoni, è questo il riconoscimento delle nostre fatiche, dei nostri saccheggi da parte dei nostri nemici nazisti e tedeschi, delle nostre torture, dei nostri Compagni Caduti che ci dissero “Vendicateci che siamo morti per la liberazione del Popolo Italiano”? Ricordati Compagno Togliatti che qui in Carcere siamo tutti Partigiani dell’idea del PCI e siamo tutti imputati di rapina ed estorsione, invece le altre imputazioni di omicidi ecc. le hanno solamente i nostri traditori della nostra lotta Clandestina, è per questo che per loro c’è l’amnistia! E per noi la galera? Caro Compagno Togliatti ricordati solamente che ài dei tuoi Compagni Partigiani (Garibaldini) in Carcere. Non dimenticarti se sei un vero Compagno. Attendo una tua risposta In fede mi firmo
Compagno Ernesto Perino Negus, 15 luglio 1946

Lo stesso Togliatti, d’altra parte, sollecitava contemporaneamente alla vigilanza contro i militanti «indisciplinati ed estremisti» del Pci, invitando – nel caso non fossero rientrati nella legalità – a espellerli dal partito e a segnalarli alle autorità.
Al 1955, i partigiani condannati risultavano essere un migliaio, gli arrestati più del doppio: tutti i giornali parlano del «triangolo della morte» e del pericolo per l’ordine pubblico costituito dagli ex combattenti della Resistenza, i cui legittimi atti di guerra vengono ricondotti a criminalità comune. L’atteggiamento del Pci fu, a dir poco, ambiguo e contraddittorio, al di là della solidarietà tanto sbandierata: «Da un lato il partito solidarizza con gli inquisiti e contesta la messa in stato d’accusa della Resistenza; dall’altro mostra imbarazzo nell’affrontare lo scabroso argomento delle uccisioni commesse da elementi estremisti e politicamente incontrollabili. A seconda dei casi, gli imputati vengono emarginati o soccorsi (anche mediante l’espatrio in Cecoslovacchia)» (pp. 13-14), come raccontato nelle ricerche di Massimo Recchioni (leggi e leggi). Molti dei partigiani arrestati vengono sottoposti a torture efferate per fargli confessare reati e denunciare persone in modo da costruire veri e propri teoremi e vere e proprie montature giudiziarie contro i militanti comunisti: si distinse in queste operazioni il maresciallo Silvestro Cau, dal 1948 all’inizio degli anni ’50 comandante della stazione dei carabinieri di Castelfranco Emilia incaricato delle indagini sul cosiddetto “triangolo della morte”, che «costringe i “suoi” prigionieri a indossare maschere antigas il cui filtro è imbevuto di acqua salata, inalata dal malcapitato a ogni respiro, fino al limite del soffocamento. Estorta la confessione sulle esecuzioni, Cau obbliga gli ex partigiani a riesumare le salme davanti ai parenti degli uccisi, mentre fotografi e giornalisti registrano la macabra scena» (p. 15). Altro che presunti «silenzi» decennali sul «triangolo della morte»…
Per non tutti i partigiani, però, furono sufficienti l’arresto, la condanna e la reclusione: molti vennero giudicati «seminfermi di mente» e condannati a un internamento supplementare in manicomio, in particolare nel Manicomio criminale di Aversa, nella provincia di Caserta. È questa l’assurda, insensata quanto atroce «odissea partigiana» raccontata da Franzinelli e Graziano, in cui hanno delle responsabilità involontarie anche gli avvocati «militanti» che difesero gli ex partigiani:

Per alcuni partigiani accusati di fatti di sangue, la strategia difensiva impostata da avvocati “militanti” quali Lelio Basso, Gian Domenico Pisapia e Umberto Terracini vuol mitigare le pene con il riconoscimento della seminfermità mentale. La diminuzione del periodo di reclusione è controbilanciata dalla “misura di sicurezza” dai tre ai cinque anni di manicomio giudiziario, per un periodo di “custodia” in ottemperanza alle prescrizioni del Codice Rocco sulla pericolosità sociale… Si prevede che, con il decorso del tempo e la decantazione delle passioni, provvedimenti di clemenza scongiureranno l’internamento tra i pazzi. Valutazione poi smentita dai fatti. Amnistie e indulti aprono infatti le porte alla massa dei fascisti, a quelli già condannati come ai tanti in attesa di giudizio; anche molti resistenti beneficiano del provvedimento, che tuttavia esclude la detenzione manicomiale. Negli anni cinquanta, i “pazzi per la libertà” sono pertanto rinchiusi in strutture opprimenti, privati di diritti e sottoposti a ordinarie vessazioni quotidiane. La macchina manicomiale mina la salute mentale dei partigiani, li debilita e in taluni casi li condurrà anzitempo alla tomba. [pp. 18-19]

Uno di quei casi, insomma, in cui tra gli avvocati avrebbe dovuto prevalere il pessimismo della ragione piuttosto che l’ottimismo della volontà: come affermato da Franzinelli in un’intervista a carmillaonline, infatti, «l’evoluzione degli eventi dimostrò che questo calcolo era errato: l’amnistia Togliatti ridusse o cancellò la pena detentiva ma non incise sulla pena accessoria dei 3 o dei 5 anni di detenzione in manicomi criminali. Di conseguenza, persone assolutamente sane di mente dovettero sperimentare la detenzione in strutture assai peggiori del carcere, in località assai lontano da casa, trovandosi isolate in una situazione pazzesca…». Di ciò si rese conto anche Umberto Terracini che, venuto a conoscenza dello sfogo di un internato («Fossi stato condannato all’ergastolo sarei libero. Invece ho avuto la seminfermità e sto qui dentro»), ammise di sentirsi «doppiamente in colpa: come avvocato, essendosi battuto per il riconoscimento del vizio di mente; come legislatore, per non aver saputo abrogare le norme che inchiodano al manicomio persone assolutamente sane, che avevano combattuto i nazifascisti» (p. 46).
Questa strategia difensiva probabilmente troppo ottimista, infatti, si incontrò con l’impostazione di una magistratura ancora intrisa delle influenze lombrosiane e fasciste, unite nella tendenze a rinchiudere sottochiave e a considerare folli i soggetti avversi al sistema politico: durante il regime, ben 475 antifascisti erano finiti in manicomio e 122 vi erano morti. Nell’Italia repubblicana, dunque, una sorte non diversa toccò ad alcune decine di ex partigiani, condannati per fatti avvenuti durante la guerra di liberazione o successivi ma comunque riconducibili al contesto della ventennale guerra civile italiana e alla lotta di classe a essa collegata.
Della vicenda dei cosiddetti «pazzi per libertà» – al contrario di quelle riguardanti il cosiddetto «triangolo rosso» – davvero non si parlava in quegli anni, tra imbarazzi e reticenze da parte dello stesso Pci:

L’internamento manicomiale degli ex partigiani manca di una visibilità pubblica. È come se ogni situazione individuale rimanesse un caso meramente privato, circoscritto nel dolore (e talvolta nella vergogna) delle singole famiglie, i giornali non ne accennano, in Parlamento si discute d’altro. La lontananza tra luogo d’origine e di destinazione, dal Nord Italia al Mezzogiorno, accresce l’isolamento dei “pazzi per la libertà”. Per qualche tempo famiglie, amici e compagni tentano di mantenere i contatti, ma gli sforzi si smorzano contro il muro di gomma della segregazione istituzionale. [pp. 35-36]

A tentare di rompere questo silenzio fu, dal 1954 (quando viene a conoscenza della vicenda) il militante comunista di Aversa Angelo Maria Jacazzi: è la sua fitta corrispondenza con gli internati e le loro famiglie, con i direttore del manicomio di Aversa e con i principali dirigenti del Pci (Umberto Terracini, Antonio Giolitti, Luigi Longo, Giorgio Napolitano, Gian Carlo Pajetta, Pietro Secchia, ecc.), con i quali premette per provvedimenti a favore degli ex partigiani, che costituisce la fonte principale del volume. L’opera di sensibilizzazione presso il ministero della Giustizia, tuttavia, spesso si scontrò con il contesto politico della guerra fredda: sia sufficiente pensare che il guardasigilli del governo Pella fu Antonio Azara, durante il regime presidente della corte di Cassazione e membro del comitato scientifico delle riviste «La nobiltà della stirpe» e «Diritto razzista», che nel 1953 bloccò tutti i possibili provvedimenti a favore degli ex partigiani, incarcerati o internati.
Nel volume, Franzinelli e Graziano raccontano quindi otto di queste storie di ex partigiani internati ad Aversa: sette uomini e una donna, Zelinda Resca, nome di battaglia «Lulù». Un caso tanto più assurdo, quello di Zelinda Resca, perché fu destinata al manicomio criminale di Aversa dopo che, ammalatasi di tubercolosi in carcere, le fu prescritto come cura, durante la detenzione, un clima più mite. L’ex partigiana passò, così, dal carcere al manicomio senza che le fosse imputata alcuna seminfermità di mente: del resto, come fatto notare da Emilio Quadrelli in Andare ai resti, per le donne è sempre stato facile – e lo era ancora all’inizio degli anni ’70 – passare dal carcere al manicomio, perché la popolazione femminile detenuta è considerata ancora più marginale e tendenzialmente patologica di quella maschile. A «Lulù», fin dal suo ingresso ad Aversa, viene riconosciuta la «normalità» mentale: dopo un mese di internamento, le viene riconosciuto anche di essere guarita dalla tubercolosi, «trascorre tuttavia altri sei angosciosi mesi tra guardie e “matti”, senza alcuna motivazione se non di tipo persecutorio contro un’ex partigiana» (p. 147). Emblematico, poi, che questa reclusione sia avvenuta già dopo la condanna in primo grado (a quidici anni di carcere): al processo di appello, nel 1955, Zelinda Resca fu poi assolta, con formula piena, per non aver commesso il fatto, da ogni accusa che le era stata mossa. Aveva, intanto, scontato quattro anni di carcere e sette mesi di manicomio.
Otto persone, dicevamo, il cui internamento manicomiale durò in media tra i tre e i cinque anni, anche se a volte il riconoscimento della guarigione o della «normalità» mentale (in alcuni casi già sancita al momento dell’ingresso in manicomio) non fu sufficiente alla liberazione e furono trattenuti per un periodo ben superiore. Otto storie da leggere, per comprendere cosa significasse davvero essere un ex partigiano comunista nell’Italia degli anni ’50. Ma anche per capire cosa significasse essere recluso in un manicomio criminale, per quanto gestito con un’impronta moderatamente riformista come quello di Aversa: sia sufficiente leggere le lettere censurate contenute nel volume, lettere a familiari, a fidanzate, a promesse spose, lettere con vaghi accenni politici, la cui mancata distribuzione – del tutto arbitraria – comprometteva l’equilibrio psicologico degli internati, che si sentivano sempre più soli e inascoltati, senza sapere che le missive a cui non ricevavano risposta non erano giunte a destinazione o che le risposte sperate erano state bloccate in entrata.
La maggior parte di essi, tuttavia, non perse la lucidità: persero, invece, qualsiasi fiducia nella giustizia dell’Italia per la quale pensavano di aver combattuto. Fu il caso di Giuseppe Giusto, che nel novembre 1955 scrisse a Jacazzi di non voler più inoltrare domande per la revoca della misura detentiva, dopo una serie di risposte negative:

Anche nel nuovo governo è evidente che sussiste ancora la volontà di tenere ancora in galera noi partigiani rei di aver contribuito a liberare la patria dall’invasore tedesco, ovvero a ridare al popolo italiano le libertà soppresse e cancellate dal nefando regime fascista. […] Tale politica continua a svolgersi allo scopo di alterare i connotati dei fatti, deturpandone la verità. Essa tende a fomentare odio e a provocare. Perciò non voglio assolutamente chiedere ad essa un’assurda clemenza. […] La mia coscienza di partigiano garibaldino mi impedisce di fingere un aspetto di umiltà verso coloro che hanno fatto tanto male a me e alla mia famiglia. [p. 74]

È questa l’Italia dei «due pesi e due misure». Infatti, come scrivono Franzinelli e Graziano nelle pagine conclusive del volume, «negli anni cinquanta, mentre i “pazzi per la libertà” entrano in manicomio, una quantità di torturatori e pluriomicidi già arruolati nella Rsi e nei reparti nazisti (SS italiane in primis) sono liberi. A un decennio dalla fine della guerra, vengono scarcerati gli ultimi responsabili dei crimini fascisti, siano essi tra i maggiori responsabili della dittatura ventennale, oppure i volenterosi esecutori di omicidi e persino di eccidi, inclusi i cacciatori e delatori di ebrei» (p. 205).
Nessun patto del silenzio sul «triangolo rosso» (come, del resto, sulle foibe). Nessuna esaltazione del partigiano col fazzoletto rosso al collo. Nessuna egemonia politica dei comunisti nel dopoguerra. I protagonisti del libro di Franzinelli e Graziano sembrano più «vinti» che «vincitori». Con buona pace di Pansa, e dei suoi epigoni.