Consigli (o sconsigli) per gli acquisti. Storia dell’immigrazione straniera in Italia.

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti. Storia dell’immigrazione straniera in Italia.


Un libro da masticare con attenzione, rispettandone la complessità e l’articolazione. Riassunto in poche suggestioni, che non ne rendono merito del carattere esaustivo che offre e forse neanche della sua angolazione originale (rispetto all’approccio umanitario che solitamente ammanta la letteratura progressista sul tema), ci limitiamo a ricordare, come premessa logica, che le migrazioni siano state una costante, nel percorso dell’umanità, e che – dall’inizio dello sviluppo del capitalismo – non abbiano sempre conosciuto l’ostilità della classe politica, ma siano state addirittura incentivate nelle fasi economiche in cui era necessario disporre di manodopera a basso prezzo. In questi casi, addirittura, i flussi migratori “disinnescavano” delocalizzazione delle aziende e decentramento produttivo, quando questi risultavano meno profittevoli (come sta accadendo ai giorni nostri, per dire).
Nello specifico del nostro Paese, le migrazioni hanno sempre accompagnato la storia italiana, soprattutto se considerate nella loro complessità e non solo secondo la direttrice Maghreb-Italia, con le modalità inevitabilmente disperanti e disperate dei barconi. Le migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, alla ricerca di opportunità di vita dopo le distruzioni del conflitto, gli ex soldati, i prigionieri di guerra, gli ebrei di passaggio verso la Palestina, gli “esuli” provenienti dalle aree restituite alla Jugoslavia dopo l’italianizzazione forzata del fascismo, i primi spostamenti all’estero per motivi di lavoro… delineano un quadro assai ricco e una estrema vivacità del contesto sociale, più secondo linee di qualità che non di quantità, comunque, dato che le statistiche ufficiali parlano solo dello 0,10% di stranieri sull’intera popolazione italiana ancora nel 1951, in una quota inferiore persino alla percentuale registrata durante l’autarchico fascismo (erano lo 0,20% nel 1930). Già alla metà del XX secolo, quindi, la questione immigrazione in Italia si poneva con una centralità non giustificata dai numeri, quanto da aspetti extra-statistici: la tipologia di chi giungeva nel Paese (con storie politiche spesso assai delicate, come nel caso del grumo di potere reazionario rappresentato dagli esuli giuliano-dalmati), la loro distribuzione sul territorio nazionale, l’incapacità italiana di predisporre un’accoglienza decente anche per gruppi di immigrati tutto sommati numericamente limitati. Basti dire, come ricorda Michele Colucci, che molti profughi e migranti interni fossero stati “sistemati” nei campi di prigionia fascista, non ancora smobilitati, a indicare un’assurda somiglianza tra l’immigrato e il prigioniero di guerra e a suggerire, inoltre, lo stigma sociale – ancora oggi ben radicato – che associa l’immigrazione ai campi di “accoglienza”.
Non da oggi la sinistra istituzionale, quella cioè che in Italia si è trovata ad avere, in alcune stagioni politiche, opzioni di potere non indifferenti, mostra un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei migrati: esistono ideali antecedenti storici alla Legge Martelli e alla “Turco-Napolitano” che – seppur in contesti diversi – rappresentano la “faccia buona” della legislazione italiana sull’immigrazione. Già nel dibattito interno all’Assemblea costituente, infatti, il Pci si distingueva per la sua opposizione al modello delle “frontiere aperte” preoccupandosi della fattibilità di un’apertura indiscriminata, a maggior ragione se applicata a un Paese reduce dalle macerie del secondo conflitto mondiale. Se nel caso del Pci – l’intervento in questione fu del noto aviatore Umberto Nobile, cooptato dai comunisti in virtù di una mai ben chiarita appartenenza antifascista – si poteva distinguere, comunque, una visione organica della società, per quanto inficiata dall’adesione a una realpolitik spesso letale, il successivo operato della sinistra riformista durante il decennio degli anni Novanta si segnala per l’introduzione del sistema delle quote annuali, in coerenza con la totale subordinazione nei confronti degli interessi delle aziende.
Variare i criteri dell’accoglienza dei migrati in Italia secondo le esigenze del mondo del lavoro rappresenterà, comunque, una discutibile invariante che accompagnerà la storia dell’immigrazione nel nostro Paese, a prescindere dagli schieramenti politici che si alterneranno al governo. Un’altra costante, non meno spiacevole, sarà costituita dalla pregiudiziale del “prima gli italiani”, compresi quelli all’estero. Un collegamento poco frequentato tra chi studia l’immigrazione in Italia – anche qui Michele Colucci è una pregevole eccezione – è quello tra l’emigrazione degli italiani verso altri Paesi (ultimamente tornata di gran moda con la tanto reclamizzata “fuga dei cervelli”) e l’immigrazione verso l’Italia, con la contraddizione della disinvolta attribuzione della cittadinanza ai discendenti dei primi (recentemente condita da un imbarazzante diritto al voto) e della totale discriminazione nei confronti della seconda, vessata da procedure impossibili che hanno a lungo costituito l’unico vero “modello” di integrazione italiano, vale a dire il “sistema amministrativo di dissuasione”.
L’immigrazione in Italia non è una novità degli ultimi anni, né una variabile a sé stante, ma una condizione che ha sempre interagito con eventi importanti della nostra storia novecentesca: anche l’accelerata italiana per la costruzione europea, nel corso degli anni Sessanta, va considerata alla luce della necessità di favorire l’emigrazione dei nostri disoccupati verso altri Paesi europei – anche per alleggerire il mercato interno del lavoro – piuttosto che una conseguenza di un sincero e disinteressato spirito europeista.
Lungi dal programmare piani di integrazione eseguendo proiezioni dei flussi di là da venire, il legislatore italiano ha sempre preferito una gestione a due livelli della questione migratoria, mostrando un cortissimo respiro per ambedue i suddetti piani: la programmazione dei flussi era annuale – così da produrre una precarietà endemica e “istituzionale”, del tutto contraria all’integrazione di chi era migrato in Italia – e veniva sistematicamente corretta da sanatorie che recepivano essenzialmente le necessità dei datori di lavoro, come nel caso delle badanti dell’Europa orientale, invocate a gran voce dall’associazionismo cattolico – sempre molto ascoltato nelle stanze del potere – ai fini di interessi di bottega.
Se consideriamo come anche i sindacati “ufficiali” abbiano a lungo tenuto un atteggiamento a dir poco ambiguo sull’immigrazione, con le centrali nazionali prima indifferenti al problema e successivamente attive nel cercare nuovi tesseramenti, ma con le sezioni locali non di rado impegnate a difendere la già menzionata “pregiudiziale italiana”, ci accorgiamo – nonostante almeno sessant’anni di (non) accoglienza – di saperne molto poco, a proposito di immigrazione in Italia e di comunità di migranti: il loro numero esatto, la loro distribuzione sul territorio, la stratificazione sociale interna ai gruppi etnici (soprattutto per coloro stabiliti in Italia da diversi decenni), le traiettorie di vita e di migrazione, il percorso professionale, persino l’orientamento politico.
Lavoratori e disoccupati, profughi e richiedenti asilo, studenti, apolidi: la migrazione è una variabile strutturale delle società capitalistiche, un prodotto degli imperialismi contemporanei, un mezzo per calmierare il mercato del lavoro e per divergere verso “lo Straniero” l’attenzione dell’opinione pubblica, fornendo un comodo capro espiatorio a masse di italiani insoddisfatti, sempre più numerosi e sempre meno ascoltati dai ceti progressisti.
Gli stessi, sia detto chiaramente, che veicolano un’immagine dell’immigrato francamente irricevibile alle nostre latitudini proletarie: romanticamente idealizzato, estratto dalle condizioni materiali della vita collettiva, quasi fosse un pupazzo verso il quale esercitare – spesso a livello solo teorico – i migliori sentimenti, invece che una sentina dell’aggressione padronale, quasi un anticipatore di uno status sociale che ben presto si allargherà a tutti gli strati popolari, a prescindere dalle nazionalità e dall’anzianità di appartenenza ai nostri quartieri. Dame e damerini di San Vincenzo non svolgono funzioni di alcuna utilità, nei confronti di chi fugge dalla disperazione e dalla povertà, al massimo forniscono una prima accoglienza – ampiamente prezzolata, nel caso dell’associazionismo cattolico, che ha il monopolio dell’integrazione istituzionale (o di quello che ne è rimasto) – e che sposta solo di un metro l’orizzonte del problema, anziché predisporne le condizioni per dibatterne.
Arriviamo ai giorni nostri: la crisi economica che esplode nel 2007-2008 – pur essendo sottotraccia da decenni – comporta conseguenze anche nell’ambito del quadro migratorio, in combinato disposto con le sollevazioni maghrebine del 2011-2012. Se volessimo proporre alcune linee interpretative, noteremmo anche in questo caso la pronta capacità, da parte del capitale, di utilizzare a proprio comodo i flussi migratori: l’immigrazione economica – dettata cioè dalla fame e dalla povertà – perde in Italia quasi ogni forma di legittimità, soppiantata, con il pieno accordo delle istituzioni (e l’aiuto, forse involontario, dell’associazionismo “umanitario”), dalla figura sociale e giuridica del “richiedente asilo”. Ciò che in apparenza sostituisce “semplicemente” il piano economico con quello politico nasconde in realtà un cambio di paradigma che diventa quasi una “trappola cognitiva”: il migrante vede ridurre la sua soggettività alla dimensione del questuante, nello specifico di una richiesta verso la quale la propria capacità di azione termina nel momento in cui viene presentata la domanda. Quest’ultima sarà poi valutata secondo aspetti procedurali, influenzati dal clima politico e negli ultimi anni assolutamente restrittivi da noi (a differenza della Germania, per dire), diffondendo presso l’opinione pubblica l’idea che l’accoglienza nel nostro Paese sia dovuta solo a individui particolarmente sfortunati e non a tutti coloro intenzionati a migliorare la propria qualità della vita (e quella della loro famiglia), spesso deteriorata, tra l’altro, dalle guerre imperialiste che hanno caratterizzato l’ultimo quarto di secolo, una volta caduto il Muro di Berlino.
Altre variabili entrano in gioco: il ruolo internazionale dell’Italia, l’incredibile arretratezza della nostra legge sulla cittadinanza (che risale al 1992, quando l’immigrazione appena accennava a essere un “problema”), il fenomeno – pressoché sconosciuto dall’opinione pubblica e probabilmente anche dal ceto politico – dei tanti migrati che lasciano il Belpaese una volta ottenuta la cittadinanza (spesso trasferendosi in un altro Stato europeo), il ruolo emancipatorio svolto in favore dei migranti dalle lotte sociali e politiche. Non è solo retorica oppure disperata speranza: proprio Michele Colucci spiega bene (pp. 189ss.) come il protagonismo migrante nel comparto della logistica, nel diritto all’abitare e in quelle battaglie nel settore agricolo che troppi compagni “urbanizzati” osservano con superficialità (dimenticando come queste servano prima di tutto per passare dallo schiavismo alla “civiltà” dei rapporti di sfruttamento lavorativo) hanno consentito – più di tante belle parole o di moniti papali – a trasformare il migrante di volta in volta in lavoratore e in cittadino. Da richiedente asilo a soggetto combattente, che lotta per la casa, per i diritti, per il lavoro: esiste forse una “specificità migratoria” in tal senso, una differenza tra un proletario romano e un tunisino?
Tale differenza non c’è se adottiamo questo punto di arrivo, ma torna a porsi se analizziamo – e Michele Colucci pare concordare con altri nostri (brevi) interventi in tema – il punto di partenza, al netto delle inevitabili generalizzazioni. Quando scrivemmo che “la gran parte dei flussi migratori verso l’Europa (ma questo vale anche per il continente americano) non è composto dalla parte più povera della popolazione, ma dal gradino superiore, una fascia compresa tra relativa povertà (rispetto al contesto originario) e classe media” e che “il problema non è il reddito in sé, quanto la differenza tra il proprio reddito e la percezione di quanto maggiore questo potrebbe essere una volta in Europa (o negli Usa)” intendevamo porre l’accento sull’evidenza per cui la “soluzione” al problema migratorio non possa fondarsi di certo sul continuo spostamento delle migliori energie dal Sud del mondo al Nord, ma sull’approfondimento di un paradosso solo apparente, consistente nel dire “sì ai migrati”, ma “no a questa immigrazione”.
La mobilità indotta dal continuo riassetto del capitalismo internazionale finisce infatti per “premiare”, per quanto ciò possa sembrare sorprendente, se non addirittura “offensivo”, una élite migrante, anche se una “élite della disperazione”. L’affermazione non vuole certo ridimensionare la dimensione drammatica dell’immigrazione forzata, prestando magari il fianco al razzismo peggiore (quello ammantato di indifferenza), quanto – al contrario – ribadirla, ricordando come dietro colui o colei che parte c’è un intero investimento familiare che rende ancora più importante il buon esito della migrazione. Partono coloro dotati di maggiore capitale culturale, “fisico” e relazionale, con aspettative spesso non riconducibili all’accettazione del semi-schiavismo di fatto a cui venivano costretti gli esponenti della prima ondata migratoria. Un upgrade qualitativo che, dal punto di vista politico, è in controtendenza rispetto alla crescente depoliticizzazione della società e che si pone come chiave interpretativa dell’aumento nell’associazionismo migrante e della maggiore consapevolezza nei propri diritti, rispetto alla fase in cui il silenzioso e vessatorio lavoro da “invisibile” costituiva l’unico orizzonte possibile per rimanere in Italia da stranieri. Un punto di partenza più elevato, quindi, per organizzare la lotta funzionale all’emancipazione e un motivo in più, da parte della solidarietà italiana, per dismettere i panni della “superiorità antropologica” che a volte sottostà all’aiuto unicamente umanitario.
Il “buon selvaggio”, se mai sia esistito, è storia passata.