Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara

 

Se per Wu Ming 1 la storia narrata in questo libro si allontana dalla sua “zona di comfort”, quell’insieme di letture, argomenti, narrazioni e percezioni vicine al mondo culturale che si frequenta, per noi questo libro è lontano anni luce da ogni possibile comfort culturale. Come potrebbe essere altrimenti, visto che si narrano, in una forma particolare che poi indagheremo, la vita e le esperienze di un prigioniero italiano di guerra nell’Africa coloniale, non convintamente fascista ma neanche antifascista, e dopo la guerra palesemente anticomunista nelle sue funzioni istituzionali che andò a ricoprire? Il tutto, poi, legato da un argomento centrale che attraversa il libro e che edifica il contesto in cui è calata tutta la narrazione: la montagna. Insomma, apparentemente, niente di più distante dai nostri interessi, tanto politici quanto personali. Questa è anche la ragione per cui questa recensione giunge in ritardo, a otto mesi dalla pubblicazione.

Come collettivo politico, l’obiettivo che ci poniamo nel consigliare determinati libri è sempre quello di renderli strumenti utili alla costruzione di un immaginario di classe, la riscoperta – o riproposizione – di una nostra possibile autonomia culturale. E questo libro si inserisce perfettamente in questo filo rosso, contribuisce a costruirlo, ad allacciare punti, andando a scandagliare uno dei più grandi rimossi della storia nazionale italiana, la sua vicenda coloniale. Per meglio dire, una storia non tanto rimossa nel senso di “nascosta”, quanto intossicata da una serie di narrazioni che, nel corso dei decenni, si sono imposte egemonizzando il discorso sulla nostra avventura coloniale. Ma andiamo con ordine.

Il libro si presenta immediatamente come ibrido tra la narrazione romanzata e il saggio storico-biografico. Un vero e proprio “oggetto narrativo non identificato”, come lo definisce il collettivo Wu Ming. Ma in questo caso la sperimentazione degli autori è andata molto al di là dei loro precedenti tentativi. Il testo risente, a nostro avviso in maniera determinante, dell’evoluzione del rapporto fra il collettivo di scrittori e il loro blog, Giap! Per dirla altrimenti, e in un senso assolutamente non squalificante ma anzi virtuoso, il testo assomiglia ad un lunghissimo post di Giap! Una ricerca storica documentata mista ad una capacità narrativa attraente, sommata ulteriormente a una verve politica decisiva, contribuiscono alla costruzione di un nuovo genere letterario. Crediamo che tutto questo sia determinato dal lungo e proficuo scambio sociale tra autori e lettori, ma ancor di più fra autori e “giapster”. Non a caso, i post su Giap! costituiscono uno dei nostri riferimenti “metodologici” attraverso i quali cerchiamo di impostare il nostro blog. Proprio perché Wu Ming relaziona i diversi piani linguistici e analitici non sommandoli, ma moltiplicandoli. Sinteticamente, una semplice opera di narrativa avrebbe mancato l’obiettivo della concretezza storica in cui si situa tale vicenda. Allo stesso tempo, un lavoro esclusivamente accademico, un saggio storico, avrebbe privato l’opera sia di un suo reale interesse per un pubblico più vasto, sia di una sua possibilità di superare steccati mentali e ideali. Soprattutto, sarebbe stata molto poco affascinante.

Il libro vorrebbe essere una sorta di opera biografica aperta di Felice Benuzzi, un prigioniero di guerra che fugge dal campo inglese in cui era internato insieme a due suoi amici per scalare il Monte Kenya. Dopo la scalata, Felice e compagni tornano al campo di reclusione e si riconsegnano agli inglesi. La vicenda viene letta come tentativo di rivalutazione della propria condotta morale, politica, umana, dopo vent’anni di fascismo, cercando con un gesto forse disperato di recuperare almeno un proprio orgoglio, una propria personale redenzione rispetto ai troppi silenzi, ai troppi accomodamenti, che lui e tutta la sua generazione avevano dato a Mussolini. Un estremo tentativo di recuperare un minimo di dignità, e allo stesso tempo tornare a vivere da uomini liberi nell’atto di scalare la montagna. In tutto questo, l’impossibilità dichiarata di racchiudere un’intera vicenda umana in definizioni schematiche, precise, definitive. Ogni vita presenta molte sfaccettature, così come ogni episodio storico si presta a diversi piani di lettura. Wu Ming 1 sembra lasciarci questa come riflessione finale: possiamo davvero giudicare in senso univoco quella massa di italiani che tacitamente appoggiarono quel regime così come tacitamente se ne discostarono? E se si, come interpretare quei segnali, molte volte impliciti, di reazione “esistenziale” a un potere politico subìto più che avallato esplicitamente? E se è possibile tracciare queste problematiche in senso storico, come renderle strumento utile per interpretare il presente?

 Ma il libro cessa immediatamente di essere una biografia, o “solo” una biografia, sin dal principio. Le vicende umane di Felice si tramutano nelle vicende sociali del suo contesto culturale, e queste evolvono in una sorta di contro storia sociale dell’Italia del ventennio. La biografia di Benuzzi diventa biografia dell’Italia liberale prima e fascista poi. Una biografia non autorizzata, una contro narrazione volta a espellere tutte quelle tossine depositate dalla retorica ufficiale. Compresa la “tossina madre” di tutte le retoriche nazionali sulle vicende italiane del ventennio: la narrazione dell’”italiano brava gente”, del “colonialismo dal volto umano”, del fascismo quale regime “all’acqua di rose” rispetto ai ben più autoritari regimi nazista e comunista. E’ qui che il libro sviluppa tutta la sua forza. Quantomeno, è in questo senso che noi, come collettivo, intravediamo tutto il suo potenziale. Attraverso una costruzione narrativa efficace come abbiamo appena accennato, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara ripercorrono il vero volto del colonialismo italiano. Fatto di pulizie etniche, utilizzo massiccio dei gas contro la popolazione civile, campi di concentramento e politiche di sterminio delle popolazioni autoctone, violazioni di ogni diritto o convenzione internazionale, razzismo pervadente tutta l’esperienza coloniale e tutto il regime fascista sin dal suo esordio. In poche parole, l’embrione politico che farà da scuola a tutti i governi reazionari del novecento. Si dirà che cose del genere sono state già ampiamente analizzate da alcuni dei migliori storici che questo paese possa vantare, quali Angelo del Boca o Giorgio Rochat, ma è altrettanto vero che una certa cappa mediatico-culturale ha impedito a tali ricerche di raggiungere qualcosa di diverso della solita nicchia di eruditi o appassionati alla materia. Libri come questo contribuiscono invece alla rimozione di alcuni paletti radicati nel ventre dell’opinione pubblica, quali ad esempio il ruolo italiano nelle missioni militari, visto come costruttore di scuole e portatore di pace. Niente di più falso così come niente di più implicitamente accettato. Una forma ideologica pervasiva e difficilmente scalfibile. Un conto è dire che il fascismo è stato un pessimo regime politico. Un altro è dichiarare, provandola attraverso una mole di documenti, la sostanziale continuità politica e ideologica tra stato liberale, fascismo e Italia post-fascista. Un’operazione infatti sottaciuta anche dal PCI, alfiere di una rottura storica determinata dalla Repubblica nata dalla Resistenza che nei fatti non si produsse, o si produsse solo marginalmente e/o formalmente.

Concludiamo qui le nostre riflessioni. Il testo ci sembra inaugurare un nuovo tipo di ricerca storica. Una ricerca che tenga insieme il momento “evasivo” del narratore a quello “rigoroso” del ricercatore. In questo senso, non possiamo che augurarci nuovi sviluppi in tal senso. Se l’evoluzione del collettivo Wu Ming sarà questa, non possiamo che attendere con interesse il prossimo oggetto narrativo non identificato a firma collettiva.