Cambiare gli occhiali con cui guardavamo il mondo
Per provare a comprendere la “crisi ucraina” dovremmo definitivamente dismettere gli occhiali da guerra fredda con cui eravamo stati abituati a guardare il mondo. In questa vicenda non esistono stati buoni e stati cattivi, non esiste un campo antimperialista in cui militare aprioristicamente, né stati socialisti o progressisti da difendere, ma esclusivamente stati nazionali e alleanze internazionali che stanno promuovendo e tutelando gli interessi delle rispettive borghesie dominanti. Il tutto in un balletto politico che, seppure nessuno ammetta di volerlo espressamente, anzi lo neghi risolutamente, rischia pericolosamente di trasformare lo scontro diplomatico e le schermaglie militari in uno scontro bellico globale vero e proprio. Da questo punto di vista si potrebbe tranquillamente ribaltare il celebre aforisma di Carl von Clausewitz e affermare, senza andare troppo lontano dal vero, che in fin dei conti è la politica internazionale a non essere altro che la continuazione della guerra con altri mezzi.
Dunque, se proprio volessimo proporre un parallelismo storico, operando, sia chiaro, una evidente e grossolana semplificazione, crediamo che non sarebbe alla seconda guerra mondiale, o ancor meglio all’equilibrio bipolare che ne venne fuori, che dovremmo guardare, ma caso mai alla prima guerra mondiale. La crisi dei processi di mondializzazione e il declino economico ed egemonico degli Stati Uniti ci lasciano infatti un caleidoscopio di potenze globali e regionali che stanno ridefinendo i propri rapporti di forza con ogni mezzo a loro disposizione. Come scriveva più di cent’anni fa un signore col pizzetto: i capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti. E la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione alla forza” (…) Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti, occorre sapere quali questioni vengono risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura “puramente” economica, oppure extra-economica (per esempio militare), ciò, in se, è questione secondaria, che non può mutare nulla nella fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo. Sostituire la questione del contenuto della lotta con quella della forma significa cadere a livello del sofista.
La consapevolezza che non ci siano stati “amici” per cui “tifare” e che un eventuale generalizzazione del conflitto non potrà che trasformarsi in un’ennesima mattanza di proletari da entrambe le parti non deve impedirci però di analizzare e comprendere le dinamiche che hanno portato all’attuale “quasi guerra”. L’elemento scatenante rimane l’aggressione della Nato e il suo progressivo allargamento ad est propugnato da Washington con la cosiddetta “politica della porta aperta”. Nel giro di vent’anni l’alleanza atlantica è passata da 16 a 30 membri attraverso l’inglobamento dei paesi che un tempo facevano parte della Jugoslavia, del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica spostando i propri sistemi d’arma e le proprie basi militari sempre più a ridosso dei confini russi, così che già oggi in Polonia e Romania sono presenti sistemi missilistici potenzialmente in grado di lanciare missili Cruise a testata nucleare. Si tratta, evidentemente, di una vera e propria manovra di accerchiamento di quella che la stessa Nato ha definito “la maggiore minaccia militare” per l’alleanza atlantica. Un accerchiamento che rischierebbe di completarsi definitivamente se le richieste di ingresso nella Nato avanzate da parte di Bosnia-Erzegovina, Georgia ed Ucraina dovessero concretizzarsi, magari accompagnate da qualche ulteriore “regime change” nei paesi rimasti sotto l’influenza russa. Una strategia che ha spinto Putin a riconoscere solo adesso e solo strumentalmente le repubbliche popolari del Donbass, pur di riuscire così a ritagliarsi una “zona cuscinetto”. E questo nonostante l’aggressione militare da parte ucraina proseguisse da oltre 8 anni e in totale violazione degli stessi accordi di Minsk e nel totale disinteresse dei media internazionali. Distribuire analiticamente le colpe però, ovviamente, non basta. Anzi, se non ne consegue un’idicazione politica potremmo dire che praticamente servea poco o a niente.
L’escalation di queste ore ci consegna quindi un compito abnorme, soprattutto visti gli attuali rapporti di forza, ossia rilanciare con determinazione, per quanto oggi possa suonare velleitaria, la parola d’ordine della fuoriuscita dalla Nato.Reclamare il rispetto del diritto internazionale, come fanno oggi le cancellerie occidentali, è semplicemente ridicolo, soprattutto dopo trent’anni di guerre umanitarie portate avanti senza nemmeno lo straccio della copertura Onu.Rivendicare il diritto all’autodeterminazione disconoscendo però quello dei popoli oppressi come nello stesso Donbass, come in Palestina o come accade nella “democratica” Europa in Euzkadi o nell’Irlanda del Nord è pura ipocrisia.Parlare di rispetto dei confini dopo aver fomentato l’odio etnico in Jugolavia e dopo averla smembrata a forza di bombardamenti aerei è addirittura tragicomico.Ma è altrettanto vero che parlare di pace senza denunciare la natura imperialista di questo conflitto ci relegherebbe nell’inutile campo delle “anime belle”, così come lottare contro la guerra senza combattere contro il proprio imperialismo sarebbe invece da farisei.
Non una base, non un soldato, per la guerra imperialista!