Affinità e divergenze fra il compagno Quadrelli, la compagna Bausano e noi
Qualche giorno fa Emilio Quadrelli e Giulia Bausano, in un’accurata analisi comparsa su Contropiano, leggevano la manifestazione del No Monti Day del 27 Ottobre attraverso la lente di due commenti politici avvenuti nei giorni seguenti. Uno era l’analisi che della manifestazione ne faceva Giorgio Cremaschi, l’altro la nostra analisi sulla scarsa efficacia di momenti politici come quello, slegati da ogni dinamica “reale” di lotta sociale, basati unicamente sull’evento, sempre declinato però in chiave pacifica e di “rappresentanza” di lotte che in realtà non hanno alcun referente politico, dunque che rimangono esclusivamente su un piano sindacale.
Pur condividendo gran parte della lettura che ne fanno Quadrelli e Bausano, sentiamo la necessità di rispondere politicamente e pubblicamente alla discussione avviata. Principalmente, perché si tratta di un ottimo spunto, come se ne vedono sempre meno, e che può generare un dibattito interno alla sinistra di movimento. In secondo luogo, perché riteniamo che gli autori equivochino una parte della nostra analisi, sintetizzando e semplificando troppo una serie di ragionamenti che in realtà non vanno nella direzione che loro ci attribuiscono.
Sugli appunti che il pezzo di Quadrelli-Bausano rilevano a Cremaschi, poco da aggiungere. Siamo perfettamente d’accordo, ed è il motivo per cui appuntamenti del genere saranno sempre più inefficaci. L’analisi che fa Cremaschi, che è poi quella comune a tutta la sinistra (micro)partitica, anche di una parte di movimento, è la solita: bisogna creare un contenitore politico capace di aggregare tutte le forze anti-liberiste, tale da rappresentare le lotte sociali anche a livello elettorale nelle assemblee parlamentari. La logica, derivante da una concezione politica addirittura secolare, ha molti limiti, ma quello principale è il continuo confondere la causa per l’effetto. Mentre questa analisi deduce che la sinistra “di classe” sia scomparsa dalla società perché non più forte elettoralmente, e dunque la soluzione sarebbe quella di creare un nuovo contenitore competitivo in tal senso, il problema che opzioni politiche del genere continuano a non vedere è che questi partiti sono scomparsi elettoralmente proprio perché scomparsi da tempo socialmente. Insomma, la causa dell’irrilevanza politica della sinistra non è l’assenza elettorale/parlamentare, quella semmai è l’effetto. La causa dell’irrilevanza politica dei partiti della sinistra anti-liberista è il suo essere fuori da ogni contesto sociale, da ogni lotta di classe, da ogni conflitto reale. Questo non significa che non esistono pezzi di quella sinistra che stiano effettivamente nelle lotte. Ma non ci sono in quanto sintesi politica, come espressione politica di conflitti sociali. Ci sono come sindacati, come movimenti più o meno (dis)organizzati, come associazionismo.
L’irrilevanza di manifestazioni come il No Monti Day deriva esattamente da questo, e cioè dal voler continuare a creare contenitori politici che in realtà sono avulsi dal contesto sociale, e che però sperano di rappresentare questo contesto sociale elettoralmente, come valesse la stessa logica picista di delega politica al partito di massa organizzato. Solo che il PCI era davvero un partito di massa organizzato, presente socialmente. Dunque, la delega funzionava. Oggi quella logica è morta, e semmai il nostro obiettivo è ricreare le condizioni perché questo avvenga, partendo dalla causa e non dall’effetto.
Detto questo, passiamo alle divergenze rispetto alla lettura nostra e quella di Quadrelli e della Bausano. Crediamo che tali divergenze siano derivanti esclusivamente da un abbaglio degli autori stessi, perché le conclusioni che pongono come soluzioni alle loro critiche sono le stesse che andiamo dicendo anche noi da anni. Ma procediamo con ordine.
Da una parte, Quadrelli-Bausano ci imputano di “vedere” politicamente solo il nuovo che avanza, tralasciando il vecchio impianto produttivo che esiste ancora e che rappresenta anche la maggioranza della classe sociale che vorremmo organizzare. Insomma, troppo proiettati sul nuovo precariato metropolitano, quale effetto tendenziale della nuove ristrutturazione capitalista, ci scordiamo del vecchio che esiste ancora, e cioè del lavoro contrattualizzato e a tempo indeterminato, che gode ancora di alcune (presunte) garanzie e che, di passaggio, è anche maggioritario all’interno della stessa classe. Oltretutto, di un soggetto sociale che difficilmente si esprimerebbe su posizioni e pratiche da “nuovo soggetto precario”, e che dunque ha bisogno anche dei suoi momenti di visibilità politica pacifica e democratica come la manifestazione del 27 Ottobre. Ma su questo noi siamo perfettamente d’accordo!
La nostra critica è esattamente quella che viene sventolata contro di noi dagli autori. Il nostro ragionamento è che manifestazioni del genere non hanno senso perché non esiste più una sinistra di classe, organizzata in partito, che fa il lavoro “sporco” durante tutti i giorni dell’anno, che sta nelle lotte e nelle contraddizioni sociali, che lavora nei territori e nei luoghi di lavoro, e che rappresenti la sintesi politica dei vari conflitti sociali. Se esistesse, se esistesse anche solo in fieri un modello politico del genere, le manifestazioni come quella del 27 Ottobre sarebbero addirittura necessarie. A questo proposito, nei commenti seguiti al nostro articolo, facevamo l’esempio della lotta NO-TAV, chiarendo proprio come lì manifestazioni pacifiche, pubbliche, aperte e democratiche hanno perfettamente senso, proprio perché non cadono nel vuoto dell’evento singolo, ma sono l’espressione politica di una lotta quotidiana e che va avanti da anni. Là sono i compagni, come soggettività politiche, che insieme alla popolazione in lotta stabiliscono i momenti di attacco, di difesa, di ripiegamento. E si servono anche dei momenti di precipitazione politica, quali le manifestazioni pubbliche, per esprimere il consenso diffuso attorno ad una lotta che non avviene nel corteo democratico, ma che è anche quel corteo democratico, ma molte altre cose.
Detto questo, lungi da noi porre improbabili differenze qualitative all’interno della stessa classe. E’ il mondo del lavoro dipendente e salariato, nel suo complesso, che è sotto attacco e in continuo ripiegamento. Ed è quel mondo del lavoro che va organizzato politicamente, senza instillare presunte divisioni contrattuali favorite dal capitale tendenti a dividere solo la classe al suo interno. Siamo altresì convinti che le nuove forme di sfruttamento, tendenti alla precarizzazione diffusa del rapporto lavorativo, siano il famigerato “nuovo che avanza”, il modello sociale prodotto dai nuovi assetti produttivi, il soggetto sociale minoritario ma centrale e “futuro” che costituirà il modello di riferimento capitalista per l’avvenire. Ma questo non solo non verrà mai organizzato senza l’altro soggetto, lungi storicamente dallo scomparire, ma sono due aspetti di una stessa lotta; e che l’uno, il nuovo soggetto, è stato storicamente determinato proprio dal rifluire delle lotte di classe del soggetto “storico”. Insomma, l’assenza di una ricomposizione politica dell’operaio “garantito” ha prodotto le nuove forme di sfruttamento, proprio perché la fine della lotta di classe determina il peggioramento delle condizioni di vita di tutta la società, e non solo dei suoi attori diretti.
Veniamo alla seconda “accusa” rivolta alla nostra lettura del No Monti Day, e cioè quella per cui, in assenza di tale lavoro politico-sociale, ammiccheremmo in qualche maniera al riot di piazza, a quella sorta di guerriglia diffusa a cui sarebbe propenso il nuovo soggetto sociale, il lavoratore precarizzato, intermittente e meticcio che popola le metropoli globali, guerriglia che per ora si esprime solo in forme impolitiche e che attende solo la sua presunta politicizzazione. Anche qui, necessita un chiarimento.
Noi non abbiamo mai prodotto una esaltazione di tale forma di protesta, che riteniamo impolitica, senza orizzonte e senza alcun obiettivo. Lungi da noi fomentare e magnificare l’espressione di tale “rabbia precaria”, che rappresenta specularmente l’altro capo della critica fatta a Cremaschi: in assenza di lavoro politico e sociale, tale rabbia diventa solo un altro modo di vivere l’evento. Chi lo fa pacificamente, chi col riot, ma il risultato è lo stesso: l’assenza politica quotidiana, sostituita del momento culminante in cui sfogare la propria disillusione. Un “fenomeno” politico peraltro arrivato in ritardo nel nostro paese, che vede in alcune esperienze del nord Europa il suo punto di riferimento anche sintetizzato politicamente (e dunque, analizzabile storicamente nel suo totale fallimento).
Quello che noi ci “limitiamo” a notare è la presenza, da qualche anno, di questa tendenza all’interno del nuovo soggetto sociale. Presenza non solo perché in questi anni ha avuto modo di manifestarsi, ma perché è vivissima ed evidente nei quartieri in cui facciamo politica, nelle discussioni, negli atteggiamenti di questa nuova composizione di classe. Lo sfruttamento quotidiano e la disillusione politica hanno prodotto, in una parte di questo soggetto, la rottura di molti paradigmi e convenzioni sociali. C’è una volontà politica di esprimere il proprio disagio direttamente, senza la mediazione politico-elettorale, considerata ormai inutile o vana, nemico da combattere tanto quanto gli stessi padroni. Questa tendenza, che ripetiamo sarà sicuramente minoritaria in termini numerici ma non ininfluente e che risulta impossibile minimizzare, la sinistra di classe ha intenzione di organizzarla o solo di emarginarla da ogni proprio percorso politico?
E qui veniamo al secondo motivo per cui manifestazioni come il No Monti Day risultano fuori contesto. Perché continuano a vedere questa tendenza come opposta alla propria classe, nemica, frutto di un abbaglio collettivo e promossa da agenti infiltrati alle dinamiche di classe. Proprio quando finalmente una parte della classe prende coscienza di esprimersi in maniera diretta e potenzialmente rivoluzionaria, la sinistra organizzata invece di canalizzare tale coscienza in un percorso politico, dargli degli sbocchi, o quantomeno avviare un dialogo quotidiano con tale soggettività, continua a considerarla un nemico da tenere lontano, creando improbabili servizi d’ordine contro tali espressioni di dissenso. Producendosi peraltro negli stessi atteggiamenti che decenni prima si rinfacciavano al PCI e alle burocrazie comuniste sclerotizzate: quella di non vedere il nuovo che avanza, accusandolo di criptofascismo, di infiltrazione e di spontaneismo impolitico. La prova evidente che si diventa da grandi ciò che si accusava da ragazzi.
Dunque, per quanto ci riguarda, tale forma di insorgenza non è esaltata, ma notata, evidenziata. E tale riguardo è inteso come una direzione in cui dovrebbe lavorare il futuro partito comunista, e cioè organizzare contemporaneamente il vecchio soggetto presuntamente garantito col nuovo iperprecarizzato. Né più, né meno che la direzione che dovrebbe prendere il “partito della banlieue”, cioè quella di stare nella classe tentandone di organizzare quei soggetti sociali oggi non organizzati. Anche perché, in tempi di crisi economica e di spinte neonazionaliste, isolazioniste ed etniciste, o questo soggetto verrà in parte organizzato da noi, dalla sinistra di classe, o questo si vedrà organizzato, o quantomeno rappresentato, dalle nuove destre neofasciste che faranno di esso il proprio soggetto sociale di riferimento.
Terminiamo col dire che siamo perfettamente d’accordo con la conclusione dell’articolo di Quadrelli e della Bausano: il nuovo soggetto politico dovrà nascere all’ombra del lavoro quotidiano, nelle lotte sociali non –mediatiche, nei non-eventi, nel costante lavoro politico e sociale nei territori e nei luoghi di lavoro, nelle periferie delle metropoli come nelle grandi fabbriche. Dovrà nascere dentro il conflitto di classe, esserne parte, e solo successivamente rappresentarsi nei modi che crederà più opportuno. Insomma, il nuovo soggetto politico non nascerà per delega elettorale, ma prenderà il via dalla classe, nelle lotte di classe, e da lì si organizzerà in futuro embrione di partito. Un processo dal basso, in cui la classe creerà il suo nuovo partito adatto alle mutate condizioni economiche, e che produrrà autonomamente le sue avanguardie, che saranno tali solo dopo il conflitto di classe, e non prima, o dall’alto.