La “riforma finale”

La “riforma finale”

Quella a cui il Governo Monti si appresta a mettere mano sarà “la riforma finale” del sistema previdenziale. Proprio così, avete letto bene: la riforma finale. E il copyright della lugubre quanto appropriata definizione questa volta non è nostro, ma è del neoministro del lavoro Elsa Fornero (leggi). Confessiamo che quando abbiamo letto quali fossero le intenzioni della “superesperta di pensioni” c’è corso più di un brivido lungo la schiena, e non solo per il fatto che in quello slogan ne riecheggiasse un altro ben più macabro e triste. La prendiamo un po’ da lontano promettendo però di arrivare velocemente al punto. Marx sostiene che nella società dominata dal modo di produzione capitalistico la merce sia la forma elementare della ricchezza, e che ogni merce abbia al contempo un valore d’uso ed un valore di scambio. Il primo è intimamente connesso alla natura stessa della merce, al suo “corpo”, e dunque alla sua capacità di soddisfare un bisogno; sia esso materiale o spirituale, reale o immaginario. Il valore di scambio è invece la cristallizzazione di quella “sostanza sociale” che rende tutte le merci assimilabili e dunque scambiabili tra loro: il lavoro umano. Esso è dunque la misura del tempo di lavoro (generico ed astratto) socialmente necessario a produrre ogni merce. E tra queste, per quanto possa non piacerci, c’è anche il lavoro, o più correttamente, la forza lavorativa. La sola merce di cui dispongono e che dunque possono vendere milioni di proletari ed al tempo stesso l’unica merce in grado di generare, attraverso il suo consumo, più valore (di scambio) di quello necessario alla sua produzione. E’ questo, in nuce, lo “scambio ineguale” su cui poggia l’intero sistema socioeconomico in cui viviamo. Il salario è dunque il prezzo di questa particolare merce (e non del “lavoro”) ed il suo valore non può che oscillare intorno a quello determinato dal tempo di valore socialmente necessario a riprodurre la forza lavorativa (alimentazione, alloggio, istruzione, ecc.), spinto in un senso o nell’altro anche in funzione dei rapporti di forza che si vengono a generare tra le classi. Se siamo forti il salario cresce, se siamo deboli diminuisce. Quest’ultima affermazione dovrebbe rappresentare quasi un’ovvietà, eppure sembra essere stata completamente rimossa dal discorso pubblico anche da parte di certa sinistra politica e sindacale. Col risultato di aver lasciato milioni di lavoratori ostaggio dell’ideologia dominante convinti di dover fare i sacrifici e di dover rinunciare per questo ad alcuni “privilegi”, tra cui la pensione. Il ciclo di lotte trentennale di cui più volte abbiamo parlato su questo blog aveva portato i lavoratori italiani a vedere accresciuto il loro salario reale che, e qui sta il punto, non è solo quello diretto; quello che per intenderci arriva in busta paga (per chi ce l’ha), ma che invece si compone anche di una parte indiretta (stato sociale) e di una parte differita (pensioni e TFR). Ed è proprio su queste due voci del salario che con la scusa del rigore negli ultimi venti anni si è concentrata maggiormente la scure padronale. Anche perchè se ti tolgo 50 euro te ne accorgi subito, se invece ti taglio il servizio sanitario c’è il rischio che tu te ne accorga solo quando ti serve un ambulanza e non arriva. Tutto questo col “brillante” risultato che il rapporto debito/PIL è rimasto pressoché identico a quello di prima della cura neoliberista inaugurata dal Governo Amato nel 1992, mentre i lavoratori sono sensibilmente più poveri. E adesso, come in un assurdo gioco dell’oca, ci troviamo a ripartire dalla casella iniziale e dalla “riforma finale” della Fornero. Ma proviamo ad entrare un po’ più nel dettaglio, anche perché di analogie col passato ce ne sono davvero tante, e sono tutte inquietanti. Nel 1995 l’approvazione della legge 335 (riforma Dini) segnò il passaggio dal sistema previdenziale a base retributiva a quello a base contributiva. Ad infliggere questa pesantissima sconfitta ai lavoratori fu (guarda caso) un governo tecnico succeduto (guarda caso) al Governo Berlusconi e che potè contare (guarda caso) sul sostegno parlamentare del centrosinistra che (guarda caso) anche al tempo faceva appello alla ragionevolezza e all’unità nazionale per far fronte (guarda caso) alla crisi incombente. Il vecchio sistema, molto più equo di quello attuale, era figlio di lotte sociali durissime e prevedeva che si potesse andare in pensione percependo una cifra conteggiata percentualmente (2% per anno lavorato) sulla media dei salari percepiti negli ultimi anni. Per cui, ad esempio, un operaio che andava in pensione con 35 anni di anzianità avrebbe percepito una pensione pari al 70% degli ultimi stipendi presi. L’attuale sistema contributivo prevede invece che venga calcolato il montante dei contributi effettivamente versati (che per i lavoratori dipendenti è pari al 33% del salario) rivalutati secondo un tasso di capitalizzazione legato all’andamento del PIL e che ad esso venga poi applicato un coefficiente di trasformazione teso ad incentivare il prolungamento dell’età lavorativa. Come se ogni mese uno versasse idealmente quella cifra su un conto corrente. Un calcolo a prima vista molto complicato, ma che nasconde, molto più banalmente, una decurtazione sensibilissima della pensione, per chi mai riuscirà ad averla. Soprattutto alla luce della precarietà diffusa, dell’intermittenza dell’impiego, dei contratti a progetto, del part-time, del lavoro nero e dei salari da fame che in questo paese sono ormai diventati il lavoro “tipico”. Tanto per dare alcune cifre indicative secondo alcuni studi dell’ACTA (leggi) chi andrà in pensione prima dei 65 anni percepirà presumibilmente una pensione inferiore al 50% del salario, percentuale che sale di qualche punto (senza superare il 60%) se si prolunga l’età lavorativa fino a 70 anni. Immaginatevi a 70 anni, immaginatevi a dover vivere pieni di acciacchi con la metà di quanto prendete adesso e poi immaginate di essere a Piazza San Giovanni il 15 ottobre… vabbè, torniamo a noi. Nonostante la volontà dell’allora primo ministro Dini di applicare immediatamente la riforma a tutti il passaggio al nuovo sistema di calcolo venne modulato in funzione degli anni di anzianità maturati al primo gennaio del 1996, una data che con la complicità dei sindacati confederali arrivò a rappresentare una vera e propria deadline in grado di separare i sommersi dai salvati. Chi a quella data aveva già 18 anni di contributi avrebbe avuto la pensione calcolata col vecchio metodo, chi aveva meno di 18 anni con un sistema misto, mentre chi invece entrava nel mercato del lavoro dopo quella data sarebbe rientrato pienamente nel nuovo sistema previdenziale. Questo, per quanto scellerato, era il patto. Ora con la “riforma finale” il Governo Monti-Napolitano non si accontenta più, vuole fare carta straccia anche di quel patto ed estendere a tutti i lavoratori il metodo retributivo con entrata in vigore dal 1 gennaio del 2012, abolendo anche le pensioni d’anzianità. E poi altre privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni del mercato del lavoro, insomma, l’assalto al salario sembra essere la sola “ricetta anticrisi” che questi signori sono in grado di immaginare. Una ricetta che non può essere la nostra.