26 giugno, giornata contro la tortura… dicono i muri

26 giugno, giornata contro la tortura… dicono i muri

Ieri, 26 giugno, si è celebrata la giornata internazionale contro la tortura. A modo nostro, come spesso accade, abbiamo deciso di far parlare i muri della città anche per questa ricorrenza. Oltre a questo, però, nel ricollegare il tema della tortura e della repressione di Stato a questa data simbolica, proponiamo qui di seguito il testo di un articolo apparso sulle colonne de Il Manifesto in data 20 marzo 1982, a firma di Franco Marrone (già coofondatore di Magistratura Democratica). Un articolo in cui Marrone sposava le dichiarazioni di Triaca, vittima di tortura fisica e psicologica dopo l’arresto del 17 maggio 1978, pur non partendo da premesse “rivoluzionarie”. Rimane comunque un dato interessante a partire da alcune contraddizione giuridiche che evidenzia Marrone stesso nel corso della sua articolata disamina.

 

 

Certo che esiste la tortura in ltalia. Il caso Triaca, modello per pentiti o per ottenere pentimenti.

di Franco Marrone

[…] Esiste la tortura in Italia? Credo purtroppo che bisogna rispondere positivamente e non da oggi. Un caso, estremamente interessante, anche perché può essere ricostruito nel dettaglio, essendo ormai gli atti tutti pubblici, è quello di Enrico Triaca. Il tipografo delle Br che il 7-11-78 è stato condannato dalla 8^Sez. del tribunale di Roma quale responsabile del delitto di calunnia (artt. 368 e 61 n. 10 c.p.) «perché nell’interrogatorio reso al consigliere istruttore presso il tribunale di Roma il 19-6-78 quale imputato di partecipazione a banda armata e di altri reati, incolpava ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di Ps, sapendoli innocenti, di averlo costretto con torture fisiche a rendere dichiarazioni ammissive di responsabilità proprie e altrui, il 17-18 maggio 1978». Triaca venne arrestato Il 17-5-78 nella tipografia di via Pio Foa a Roma. Nominò immediatamente suo difensore l’avv. Alfonso Cascone. Dagli atti risulta: l) che il Triaca venne interrogato il 17 maggio ore 17,50 nel locali della Digos da due ufficiali di Pg. Il verbale consta di sei facciate dattiloscritte a spazio uno. In esso non vi è alcun cenno al fatto che il Triaca è imputato, né al suo difensore, né al suo diritto a non rispondere. L’interrogato rende dichiarazioni autoaccusatone; 2) che in data 18-5-78 Triaca ha rilasciato «spontaneamente e personalmente» una dichiarazione dattiloscritta davanti ad altro ufficiale di polizia giudiziaria, contenente affermazioni accusatorie nei confronti di terzi; 3) che in pari data il Triaca rilasciò altra dichiarazione accusatoria; 4) che alle ore 22 di quello stesso giorno 18-5, Triaca fu interrogato nel palazzo di giustizia dal consigliere Istruttore su mandato di cattura dello stesso, in presenza del difensore «Luigi De Cerbo del foro di Roma, nominato di ufficio – Presente In quanto il Triaca revoca quello da lui nominato in precedenza»; 5) che il 19 maggio negli uffici della questura di Roma (non è indicata l’ora) Triaca venne interrogato da altro GI, in assenza di qualsiasi difensore. Dal verbale risulta: «avv. Maria Causarano con revoca di ogni altra nomina». Ma la Causarano non risulta presente. Né vi è alcuna annotazione riguardante la urgenza di procedere senza avere avvisato il difensore. A questo punto, secondo i difensori attuali, del Triaca si perdono le tracce; né loro, né i partenti del detenuto riescono a sapere alcunché, sino a quando il 9 giugno nel carcere di Rebibbia il consigliere istruttore interroga il Triaca in presenza dell’avv. Cascone, suo difensore originario di fiducia. Nel verbale risulta che Triaca a domanda risponde di aver scritto una dichiarazione dettatagli da una persona della Questura, il cui contenuto però corrispondeva alle sue dichiarazioni. In un successivo interrogatorio del 19 giugno, Triaca puntualizza: «Ritratto tutto quello che ho detto perché mi è stato estorto con la tortura». Domandato risponde: «Potevano essere le ore 23 e 30 quando fui portato giù e fatto salire su un furgone ove si trovavano due uomini con casco e giubbotto antiproiettile. Fui bendato e steso per terra. Il furgone partì. Ad un certo punto fui fatto scendere e sempre bendato salire dei gradini. Sempre bendato venni legato su un tavolaccio. Qualcuno mi tappò il naso con le mani e mi versò dell’acqua in bocca». DR: «Ritengo che mi versò l’acqua in bocca per non farmi respirare. Inoltre per due volte mi gettò in bocca una polverina». DR: «Non so indicare il sapore di questa polverina. Rimasi legato per circa 30 minuti, mentre le persone che mi erano accanto che io non vedevo, perché ero bendato, mi incitavano a parlare. Quindi fui slegato, fui massaggiato e venni rivestito (infatti prima di legarmi mi avevano denudato). Fui portato fuori sempre bendato. In questura mi tolsero le bende, dico meglio dentro il furgone mi tolsero le bende, e mi consegnarono in questura, a due agenti che mi portarono in camera di sicurezza. Il giorno dopo mi portarono in un ufficio della questura e mi fecero scrivere a macchina una dichiarazione in due fogli. Preciso che la prima dichiarazione la battei a macchina da me la mattina, e l’altra dichiarazione su altro foglio fu scritto da me a macchina di pomeriggio». L’imputato ha appena finito di rendere le sue dichiarazioni che il consigliere istruttore gli contesta di essere indiziato del delitto di calunnia. Il 4 luglio 1978 il Pm ordina la cattura per calunnia. Triaca, interrogato il giorno dopo dichiara: «Confermo quanto ho dichiarato Il 19 giugno 1978 al consigliere istruttore Gallucci; preciso che non ho visto particolarmente in faccia, nella semi-oscurità del furgone, i due agenti che mi ci fecero salire, il cui viso era oltretutto occultato dal casco. Non ho nemmeno badato ai connotati degli agenti che in questura mi portarono in camera di sicurezza, dopo la tortura, né a quelli che, dopo avermi tolto le bende, mi consegnarono ai suddetti agenti. Il fatto che io nei giorni successivi abbia confermato ai magistrati inquirenti tutto quanto avevo in precedenza dichiarato, fornendo anche ulteriori particolari, si spiega col fatto che per vari giorni ho agito nella sfera di intimidazione derivante dalla tortura subita, anche quando mi trovavo in ambiente del tutto estraneo a quello della questura».

Gli ufficiali o agenti di Pg che presero in consegna il 17 maggio u.s. Enrico Triaca, dopo che fu interrogato dai due funzionari di Ps, non sono mai stati individuati. Durante il processo, celebrato col rito direttissimo, lo stesso Spinella, dirigente della Digos, dichiarava che era possibile identificare gli agenti che erano addetti alla camera di sicurezza sulla scorta di appositi registri. Senonché, avendo il tribunale disposto che i registri venissero esibiti in visione, la questura rispondeva che non esistevano. Il tribunale, subito acquietato, emetteva la sentenza di condanna ad anni uno e mesi 4 di reclusione. Nella motivazione sostiene che non ci sono state torture in quanto già nell’interrogatorio regolarmente verbalizzato del 17 maggio (il primo) l’imputato aveva parlato. Perciò non vi era ragione perché gli agenti gli usassero violenza. Dimentica però il tribunale che in un caso Triaca aveva parlato di sue responsabilità e nell’altro di responsabilità di terzi (il che per un appartenente ad un’organizzazione politica non è cosa di poco conto). Davanti al GI il 18 maggio, in presenza del suo difensore aveva confermato tutte le circostanze contenute nelle dichiarazioni che gli sarebbero state estorte senza fare riferimento alle torture. Anche qui il tribunale dimentica, pero, che l’imputato era assistito da un difensore di ufficio e che «per vari giorni – secondo le sue dichiarazioni – aveva agito nella sfera di intimidazione derivante dalla tortura subita, anche quando si trovava in ambiente del tutto estraneo a quello delle torture». La falsa accusa poteva trovare giustificazione nel timore di ritorsioni da parte dell’organizzazione. La prima osservazione che si può tranquillamente fare a proposito di tale sentenza è che il tribunale nonostante i suoi tentativi (peraltro molto timidi), non era riuscito a stabilire né il luogo esatto, né le persone con le quali l’arrestato aveva trascorso la notte tra il 17 e il 18 maggio 1978, quella nella quale diceva di essere stato torturato. Questa circostanza e le contraddizioni del capo della Digos sui registri, avrebbero legittimato più di un dubbio sul comportamento degli agenti. A ciò vanno aggiunte le numerose violazioni di legge: macroscopiche quelle del diritto di difesa. Il difensore di fiducia nominato dal Triaca il giorno stesso del suo arresto (il 17 maggio), compare in un verbale di interrogatorio solo il 9 giugno. Il giorno dell’arresto il Triaca viene interrogato da due ufficiali di Pg come fosse un testimone, senza che lo si avverta che può non rispondere, senza che venga dato avviso ad alcun difensore né di fiducia, né di ufficio; le sue dichiarazioni vengono verbalizzate in contrasto con quanto stabilito dalla legge. Il giorno successivo viene interrogato su mandato di cattura del GI, alle ore 22, senza che il difensore di fiducia sia stato avvisato e in presenza di un difensore di ufficio. Come faceva l’istruttore a sapere che Triaca avrebbe revocato il suo difensore di fiducia, prima di interrogarlo? Altro problema è quello del luogo nel quale Triaca veniva custodito. Dopo il mandato di cattura del 18 maggio, l’arrestato doveva essere custodito in carcere. Per l’art. 248 cpp l’arrestato su mandato del giudice deve stare in carcere e non in questura. Senonché dal verbale del 19 maggio risulta che l’interrogatorio è avvenuto in questura dove con tutta probabilità l’arrestato continuava ad essere tenuto. I metodi usati per Triaca (emarginare e se possibile fare revocare i difensori scomodi – custodire gli arrestati in luoghi speciali, difficilmente controllabili) pare siano serviti poi da modello per i pentiti o per ottenere i pentimenti. Ma l’aspetto più sorprendente di tutta la vicenda, è proprio il processo per calunnia. L’imputato aveva appena finito di rendere dichiarazioni accusatorie quando si sente accusato di avere detto il falso senza che nessuna indagine sia stata fatta per accertare se per caso la sua denuncia fosse fondata. Vero è che il clima nel paese era fortemente ostile verso l’imputato che era il primo brigatista di qualche rilievo arrestato dopo l’assassinio di Moro, ma è anche vero che, proprio per questo, non era da escludere che fossero state usate violenze per farlo “cantare”. D’altra parte a rendere più convincente la denuncia vi era la circostanza che Triaca non negava che le dichiarazioni da lui rese sotto la tortura erano vere. Sarebbe stato perciò dovere degli inquirenti accertare prima se tortura vi era stata e ad opera di chi e poi, ove il racconto fosse risultato falso, procedere per calunnia. Risvolto di poco rilievo dell’uso distorto delle procedure è poi l’acquiescenza quasi generale degli organi di informazione. L’Unità dell’8 novembre 1978 per esempio arrivò a pubblicare la notizia della sentenza di condanna con commenti di questo genere: “Il caso Triaca, dunque, è chiuso, anche perché persino uno dei difensori, ieri ha lasciato capire che il truculento racconto del brigatista è stato un bluff“. Gli avvocati difensori hanno proposto querela per diffamazione, ma la querela è già stata archiviata.

La verità è che il caso Triaca induce ad amare riflessioni sui rapporti tra polizia e magistratura, tra magistrati e avvocati, tra giustizia e informazione, tra detenuti politici (tutto sommato privilegiati sotto il profilo della informazione, nel bene e nel male loro fanno notizia) e i detenuti comuni (i quali non riescono mai ad entrare nel circuito dei mezzi di informazione). L’unica nota fortemente positiva dell’emergere del problema della tortura, è stato perciò il comportamento di quei membri del sindacato di polizia (Stulp) come Ambrosini e Trifirò che hanno avuto il coraggio civile di presentarsi davanti ai giudici a riferire quello che sapevano sulle torture inflitte dai loro colleghi, mostrando in tal modo di tenere al prestigio della democrazia nel nostro paese, piuttosto che a quelle del loro corpo di appartenenza.