Wu Ming, **autocritica in movimento**

Wu Ming, **autocritica in movimento**

 

[Su «Il Manifesto» di oggi, a firma Roberto Ciccarelli, compare quest’intervista a Wu Ming 1. Il titolo è «Wu Ming, autocritica in movimento». Nel sommario, il dibattito su Giap è definito «il più franco e orizzontale sul 15 ottobre».]

«Bisogna raccogliere tutte le informazioni possibili prima di decidere che un suono è rumore». Con questa citazione di Tom Waits, Wu Ming 1, membro del collettivo degli autori di Q (come Luther Blissett), 54 e Altai, è intervenuto a metà della fluviale discussione sulla manifestazione del 15 ottobre avvenuta sul blog Giap. Nei 467 post prodotti in tre giorni, di suoni se ne sono registrati parecchi e anche il “rumore” è stato meno fastidioso degli inviti alla delazione di massa, o alla ricostruzione dei fatti in base ai rapporti dell’intelligence registrati nell’ultima settimana. Nella discussione pubblica più lunga e articolata avvenuta in rete, molti partecipanti hanno dichiarato senza remore di aver preso parte agli scontri in Piazza San Giovanni, pur riconoscendo che molte cose non hanno funzionato e la manifestazione ha avuto un esito politicamente disastroso. E così anche chi ha condannato con decisione gli scontri ha riconosciuto la difficoltà di leggere i fatti distinguendo tra «violenti» e «non violenti». Finita la lettura, un elemento sembra emergere con chiarezza: la convinzione che la divisione tra la “massa” e “pochi facinorosi” non regge più, così come è a dir poco inadeguato dirsi soddisfatti per aver fatto fallire una manifestazione.
Più che un’auto-narrazione, o il tentativo di individuare una mediazione impossibile, la discussione su Giap può essere considerata lo strumento per ridefinire un campo della riflessione politica che oggi non trova spazio nei movimenti, nella sinistra o sui media mainstream. «Curioso che un blog di scrittori sia stato eletto a luogo di dibattito, anche lacerante, sulla débâcle del 15 – conferma Wu Ming 1 – Forse ha supplito a una carenza di spazi senza bandiere, o forse è solo un luogo dove si riesce a discutere, perché bonificato da troll e provocatori. Noi siamo intervenuti poco. Avevamo seguito l’evento da Bologna, entrando e uscendo dal reparto di cardiologia dov’era ricoverato un nostro compagno. Un po’ per questo, un po’ per non sembrare grilli parlanti, abbiamo deciso di ascoltare, di seguire il divenire senza tentare una sintesi».

Dieci anni fa, dopo Genova, avete proceduto ad un’auto-critica. In cosa consisteva e perché a tuo avviso è ancora valida dopo il 15 ottobre?

«Nel 2001 avviammo l’autocritica, ma troppo timidamente. Subito dopo Genova scrivemmo cose molto ingenue. Il movimento non sembrava vinto, era come quei personaggi di cartoon che, superato un dirupo, per qualche istante corrono sospesi a mezz’aria. Dopo il G8, altre Grandi Scadenze alimentarono false speranze, ma agli inizi del 2003 i social forum erano morti, c’erano scazzi feroci, la depre dilagava. L’autocritica prese forma allora, ma siamo riusciti a esprimerla solo nel 2009, nel testo Spettri di Müntzer all’alba. Facemmo molti sbagli nel preparare la Grande Scadenza. Non fummo i soli, ma noi parliamo delle nostre responsabilità. Facendo gli apprendisti stregoni col mito politico e metafore ‘tossiche’ come l’Assedio al Potere, favorimmo la reductio ad unum, l’idea di andare tutti a Genova anziché restare molteplici ed evitare la trappola. Rispetto a Genova l’autocritica è stata tardiva, e rispetto a oggi era troppo in anticipo. Il risultato è che non è servita a granché, ci siamo solo lavacchiati la coscienza.»

La metafora dell’assedio alla zona rossa ha perso la sua forza evocativa e politica…

«Alla buon’ora. Violare le zone rosse era pura autoillusione, là dentro non c’era niente, in quei summit non si decideva nulla. Il potere capitalistico non sta chiuso in un fortilizio: è nel rapporto di produzione, nello sfruttamento quotidiano, nella valorizzazione finanziaria, nelle articolazioni sul territorio. Occupy Wall Street è già un passo avanti. Come dice McKenzie Wark, lì si tratta di occupare un’astrazione. Senza voler fare l’apologia di quel percorso, che conosce ora le prime crisi (speriamo di crescita), c’è un’intuizione più precisa su come funziona il potere. Discorso simile per il nostrano tentativo di “occupare Banca d’Italia”: non si voleva letteralmente occupare la banca, ma spostare l’attenzione dal teatrino politicante ai diktat del capitale. Insomma, niente banalità del tipo “Assediamo i palazzi del potere”. Detto ciò, non è impossibile usare bene un’immagine d’assedio, pensiamo ai NoTav quando parlano di ‘assediare il cantiere’. Il rovesciamento ironico è palese: nei piani di chi vuole imporre la TAV, doveva essere il cantiere ad assediare il territorio, invece è il territorio ad assediare il cantiere.»

Ora che la teologia della Grande Scadenza Nazionale è finita, esistono soluzioni alternative per produrre un conflitto incisivo e coniugare le istanze locali con l’idea di una coalizione sociale determinata ?

«Occupy Everything può essere considerato un buon precetto. L’Onda universitaria lo mise in pratica un anno fa, ai tempi del “Blocchiamo tutto”: le autostrade, il Colosseo, la Mole… Il movimento sembrava ubiquo, era pieno d’energia, poi la scadenza del 14 dicembre dissipò in un giorno tutta la forza accumulata. Crediamo sia sempre meglio colpire in più posti che trovarsi in un posto solo, però stiamo attenti: non è solo un problema di forme, di tattiche. Se non è chiaro chi pratica la piazza e perché, non c’è proposta sulle forme che tenga. Se i movimenti volano col pilota automatico e precipitano sempre nello stesso punto, è chiaro che il problema è a monte, riguarda la devastazione degli ultimi decenni, la poca chiarezza sull’attuale composizione di classe e, aggiungo, la vaghezza di proposte e parole d’ordine, dal “comune” all’evergreen “reddito di cittadinanza”.»