Lo “Stato” delle cose

Lo “Stato” delle cose

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seconda parte del contributo –  già presente anche sul blog scateniamotempeste – della compagna Elisabetta Teghil contenente un’analisi della fase attuale.

Di Elisabetta Teghil

E’ presente una lettura che racconta lo stato attuale delle cose come prova provata della crisi del capitalismo che, pertanto, sarebbe arrivato alla fase terminale, con un’immagine pittorica, alla frutta, e, perciò, gli oppressi/e sarebbero maturi/e per la rivoluzione.

Questa interpretazione dimentica che non c’è nessuna crisi in atto, almeno nel senso tradizionale del termine, ma che tutto quello che sta avvenendo è il frutto dell’autoespansione del capitale e che gli aspetti più negativi sono stati messi in preventivo, anzi voluti.

Viene dimenticata, altresì, la lezione della Storia che ci dice che nei momenti così detti di “crisi”, la risposta non è necessariamente rivoluzionaria, ma può essere anche reazionaria.

Tutto questo non è che una variante della concezione che teorizza che lo sviluppo del capitalismo conduce, di per sé, inevitabilmente, alla società socialista.

Una visione deterministica e, perciò, idealista.

Diversa, ma complementare, è la teoria della “democratizzazione”, tradotta in parole povere, un graduale ed indolore spostamento dei rapporti di forza a favore delle classi oppresse.

Si nega e/o si dimentica l’esistenza stessa di una “macchina statale” e si sviluppano le attuali teorie del “potere diffuso”, del cambiamento senza prendere il potere.

Fondamentalmente sono teorie apologetiche delle istituzioni borghesi. E’ la vecchia ideologia revisionista e, in questo hanno ragione,” moderna”, che ha assunto ruoli, connotati e funzione di integrazione sociale e di repressione dell’opposizione di classe.

E, pertanto, in definitiva, di natura autoritaria.

Pensando di utilizzare gli apparati esistenti per democratizzarli, si dimentica che lo Stato è lo strumento e l’emanazione della classe dominante, si cassa ogni considerazione sulla natura di classe dello Stato stesso, presentandolo come neutrale e necessario per le “oggettive” esigenze di direzione della società. L’idea della non neutralità dello Stato, una delle acquisizioni fondamentali del marxismo, è completamente dimenticata, non soltanto nel revisionismo tradizionale, ma anche nelle tesi del neo revisionismo.

Da qui l’inconsistenza degli appelli dei partitini di sinistra per il ritorno a Keynes, che dimenticano che l’autosviluppo del capitalismo comporta la tendenza al monopolio e che quest’ultimo per imporsi ha bisogno della mediazione politica dello Stato.

Proprio perché la borghesia non si presenta immediatamente come classe unita, ma come classe frazionata e conflittuale , ha la necessità di recuperare la propria identità dominante tramite un’istanza specificatamente destinata all’esercizio del dominio di classe, lo Stato, appunto, strettamente inteso come nucleo coercitivo. Il carattere specifico del modo di produzione capitalistico, in particolare la caratteristica frammentazione della produzione sociale, fa sì che alcune specifiche istanze del politico siano accentrate nello Stato, momento unificante della classe capitalistica. Pertanto le teorie della democratizzazione delle istituzioni e del potere diffuso fanno perdere di vista la nozione e la natura dello Stato e dimenticare l’obiettivo della rottura rivoluzionaria, con il voluto oblio del ruolo repressivo dello Stato stesso e della lezione storica del fallimento della scelta, sempre perdente, della democratizzazione degli apparati politici, fallimento che ha sempre accompagnato l’idea di utilizzazione alternativa delle Stato esistente nell’attuale società, magari con ulteriori e più capillari ramificazioni all’ interno della società civile.

Una teoria che rappresenta una chiara regressione infantile ,una riedizione dell’opportunismo socialdemocratico.

Lo Stato borghese è profondamente innestato, tramite i rapporti della connessione circolatoria, al movimento fondamentale della riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici. In questo legame, appunto, consiste la specificità della forma politica borghese e, pertanto, bisogna abbandonare l’idea della neutralità delle forze produttive rispetto ai rapporti di produzione . Non legare la forma statale borghese alla forma dei rapporti di produzione capitalistici ,incarnati nelle forze produttive, ci impedisce una chiara individuazione dell’Altro, dell’avversario.

Ci impedisce di leggere i limiti delle esperienze della rivoluzione russa e cinese e ci coinvolge in una lettura borghese di quello che sono state, con relativa demoralizzazione ed accettazione dell’impossibilità della realizzazione del progetto rivoluzionario.

Questo perché si dimentica che il modo di produzione capitalistico mette in luce le sue diverse articolazioni e che c’è un rapporto dialettico fra lo specifico e il momento unitario.

I rapporti di produzione capitalistici sono inscritti nei processi di lavoro e si traducono nei ruoli e, questi, compresi quelli sessuati, si riproducono continuamente nella divisione sociale capitalistica del lavoro.

Ma questa condizione non si realizza a partire dall’automatismo in sé, ma ha le radici dentro le condizioni sociali, cioè nella natura della società. Pertanto la liberazione non è un programma per il futuro, ma l’inventario del presente, l’insieme delle potenzialità incorporate nel sapere sociale. Nell’inventario del presente bisogna scrivere la possibilità di una grande trasformazione dei rapporti di produzione e di scambio fra gli esseri umani. Questo a dispetto di tutte le culture riformiste che danno per scontata ed inevitabile questa società, sia che lo facciano per interesse, sia che lo facciano per ignoranza perché l’una e l’altra non comportano innocenza.

Il potere è la guerra. La guerra continuata con altri mezzi, è questo il senso delle teorie riformiste e del mantra socialdemocratico per cui da questa società non si può uscire , al massimo si può migliorare. Si omette che il neoliberismo fagocita nell’universo mercantile tutto, il lavoro, la natura, la sostanza vivente e, pertanto, anche l’immaginario e la mente.

Da qui l’adesione entusiastica e gregaria a tutte le mode, come i Beni Comuni, l’Audit, le rivoluzioni colorate…….formulazioni tese , di fatto, al di là dei buoni propositi di alcuni, alla conservazione di questa società, utilizzando codici,funzioni e canali della comunicazione culturale della classe dominante. Tutte teorie innatiste e idealiste dettate dall’ideologia vincente. Da qui il recupero necessario del materialismo storico e dialettico, strumento rivoluzionario che, passando attraverso la presa di coscienza delle stesse leggi di formazione della coscienza, approdi ad una pratica sociale trasgressiva e comunicata, orientata al soddisfacimento dei nostri bisogni materiali e delle nostre aspirazioni, cioè alla pratica della lotta di classe, per la liberazione dal capitale, per un tempo ed una vita sottratti alla tirannia del plusvalore. Per il riformismo il futuro è una proiezione del presente, per i rivoluzionari è prassi politica, è prassi sociale, è un trasformarsi trasformando la società.