La solitudine del palazzo

La solitudine del palazzo

 

In questa settimana due eventi, in apparenza molto diversi fra loro, hanno confermato lo scollamento sempre più marcato fra mondo reale e palazzo, dove per questo intendiamo quell’insieme di ceto politico orbitante attorno ai palazzi della politica, siano essi nazionali, regionali, comunali o municipali. Da una parte il referendum bolognese sulla scuola, dall’altra le elezioni comunali, in particolar modo le elezioni comunali di Roma. Tutte e due hanno sancito una distanza, forse incolmabile, fra esigenze popolari e vuote rappresentanze di interessi.

Da mesi, più o meno da quando Berlusconi ha prodotto la caduta del governo Monti, quindi almeno da Dicembre, siamo in campagna elettorale. Una campagna elettorale che dura ininterrottamente almeno da sei mesi, mesi in cui tutti i partiti in Parlamento hanno tentato di convincerci dell’assoluta importanza di scegliere la propria parte, di battere il nemico, di cambiare aria, di sconvolgere il quadro politico. Il fatto è che, da almeno due anni, non solo nei programmi ma anche nei fatti, queste due parti politiche – che dicono di odiarsi e di rappresentare due inconciliabili insiemi di interessi contrapposti – governano insieme. Hanno governato insieme durante il governo Monti, hanno continuato a governare insieme con il governo Letta. Eppure, su tutti i media possibili, e ad ogni tornata elettorale, la scelta ci viene presentata come drastica e irrinunciabile.

Anche nelle elezioni romane, i due partiti che governano insieme da due anni, PD e PDL, si sono presentati come irriducibilmente opposti. Facendo credere, anche a molti compagni, che mandare a casa il centrodestra era comunque un punto imprescindibile della propria tattica politica. Peccato che, come andiamo dicendo ormai da anni, e come alcuni precisi eventi politici, come il 14 Dicembre del 2010 o il 15 Ottobre del 2011 hanno (dal loro specifico punto di vista) dimostrato, una parte importante della cittadinanza, quella che vive di più sulla propria pelle i frutti delle “larghe intese”, abbia scavalcato a sinistra le varie strutture politiche di movimento. E infatti, per una serie di motivazioni difficilmente sintetizzabili, la metà dei cittadini romani non è andata al voto, lasciando desolatamente solo quel ceto politico che continua a chiederci il voto. Su 2 milioni e 350 mila elettori hanno votato in 1 milione e 200 mila, numeri che dimostrano più di ogni ragionamento come la politica sia diventata un affare interno ai ceti dirigenti, alle classi sociali più abbienti e al ceto medio intellettuale, sempre meno ceto medio e dunque sempre meno votante.

Tutti i partiti delle elezioni romane hanno chiuso, fra il giovedì e il venerdì, la propria campagna elettorale in qualche piazza di Roma. Piazze rimaste desolatamente vuote. Il vuoto di quelle piazze si è riflesso nei voti, che infatti vedono tutti, nessuno escluso, sconfitti. Tanto per dire, Marino, che dovrebbe essere il nuovo sindaco e che da tutti è visto come l’esponente che ha vinto la tornata elettorale, ha perso quasi 400 mila voti rispetto a Rutelli nel 2008, cioè rispetto al candidato più triste della storia del centrosinistra, e che poi giustamente ha perso quelle elezioni. Questa sequenza di dati conferma peraltro tutti quei ragionamenti che provavamo a fare prima delle elezioni, e cioè che l’assenza di radicamento sociale non può poi trasformarsi magicamente in voti, come se la partecipazione elettorale fosse slegata dalla partecipazione politica più generale, e l’assenza di radicamento che le strutture politiche che ci chiedono il voto hanno, si trasformi poi in consenso politico a un’elezione.

Queste elezioni travolgono tutti i partecipanti. Travolgono Grillo, che alle scorse elezioni politiche a Roma aveva preso il 27% e in due mesi perde il 15% dei voti, dimostrando il vuoto della sua proposta politica. Infatti, non solo oggi la retorica contro il palazzo non paga più, visto che di quel palazzo ormai ne fa parte anche il Movimento 5 Stelle, ma il suo risultato elettorale, e la flessione sempre più acuta a cui andrà incontro, dimostrano senza mezzi termini che senza un partito, senza una strutturazione politica, puoi pure trovare il jolly a una elezione azzeccando la campagna mediatica efficace, ma presto o tardi sarai destinato all’inevitabile fallimento. Infatti l’organizzazione politica serve proprio a questo, a resistere nei momenti difficili, a ripartire dalle conquiste fatte, a produrre proposte politiche, a inquadrare i militanti. Senza organizzazione, ogni soffio di vento provoca una tempesta interna, e infatti sempre più la sua assenza di proposta politica produrrà emorragia di voti.

Queste elezioni travolgono anche, per l’ennesima volta, la sinistra “antagonista”. La lista “Repubblica Romana” prende lo 0,7%, esattamente quanto Casapound (0,6%). Insieme, PRC-PDCI, Repubblica Romana e Roma Pirata, prendono il 2,2. Il partito che neanche dieci anni fa aveva il 9% a livello cittadino, e cioè il PRC, oggi viaggia sull’1,1 (addirittura insieme al PDCI), scomparso elettoralmente proprio perché da anni assente socialmente. La lista dei movimenti antagonisti che sosteneva Medici, la lista di movimento, quella dove avrebbero dovuto confluire le lotte sociali della città, prende circa 8.000 voti, la 0,7%, una miseria ancor peggiore di quella che potevamo attenderci. Dimostrando per l’ennesima volta che contarsi quando le cose non vanno bene è sempre un errore politico. E infatti, non solo a livello elettorale questa elezione ha sancito la quasi parità di voti fra movimento e Casapound, ma anche nei prossimi rapporti di forza politici sarà molto difficile far credere alla controparte di valere qualcosa di più di quello 0,7%. Ci si è voluti relegare alla marginalità politica, sapendo di essere marginali, e oggi – repetita iuvant – la sinistra di movimento ha gli stessi voti della principale forza neofascista della città, che a sua volta è andata incontro all’ennesimo flop elettorale, dimostrando di non saper aggregare nulla più del suo bacino di militanti, allargato stavolta ad amici e parenti (a fronte di una città letteralmente invasa dai manifesti neofascisti da almeno sei mesi).

A fronte di tutto questo, domenica a Bologna c’è stata l’ennesima dimostrazione di come le aspirazioni popolari e la volontà dei partiti viaggino ormai su due binari separati e contrastanti. La vittoria dell’opzione A per la scuola pubblica, contro la volontà di un vasto schieramento padronale per la conservazione di una situazione mista in cui le scuole private continuassero a riceve finanziamenti pubblici, è senza mezzi termini. Stavolta poi non vale il discorso per cui a votare c’è andata una minoranza interessata alla questione. Infatti, a differenza di tutti gli altri referendum della storia italiana, chi combatteva questo referendum aveva sollecitato il proprio seguito a recarsi alle urne e votare B. Non promuovendo l’astensione, il PD, il PDL, Confindustria, Corriere della Sera, Repubblica e Vaticano, se la sono voluta giocare nelle urne, andando incontro a una clamorosa sconfitta. Clamorosa non perché inattesa, ma perché sintetizza in maniera lampante lo scollamento di cui parlavamo: da una parte tutti i partiti dell’arco parlamentare, tranne M5S e SeL, tutti i padroni e tutta la chiesa. Dall’altra qualche attivista del comitato referendario, qualche micro partito solidale con le ragioni dei referendari (quelli di cui sopra), qualche intellettuale e poco altro. Anche questo referendum, esattamente come quelli di due anni fa per l’acqua pubblica e contro il nucleare, è un chiaro segnale di come una parte importante della popolazione sia ormai evidentemente anti-liberista, e coglie ogni occasione per esprimerlo. Quella stessa popolazione che non è andata a votare; quella stessa popolazione che non riesce più a distinguere due facce della stessa medaglia, quella del liberismo europeista, e gli volta le spalle disertando le urne. Il risultato delle elezioni comunali e del referendum bolognese, allora, possono essere letti insieme: una parte della popolazione non ha votato non per mancanza d’interesse o per vago qualunquismo, ma per una precisa scelta politica, cioè quella di non avallare questo sistema politico e soprattutto questa offerta politica. Continuare a legittimarla parlando di voto utile o di lotta al centrodestra non farà altro che separarci ulteriormente da questa massa sociale, lasciandoci tutti più soli e quindi più divisi. Oggi più che mai, dunque, Nessuno ha vinto le elezioni. Sostituire Nessuno con un’organizzazione politica capace di tenere insieme queste tendenze popolari incompiute e disorganizzate rimane il nostro compito, lontani da ogni giochetto elettorale fine a se stesso e sempre più avverso alla popolazione.

Nessuno vincerà il ballottaggio. Nessuno sarà veramente il sindaco dei romani.