La crisi senza soluzioni

La crisi senza soluzioni

 

Stiamo galoppando allegramente verso il decimo anno di “crisi”, come viene definita questa recessione generalizzata delle economie occidentali che però, a differenza degli altri cicli economici del passato, in questa fase non può avere una sua soluzione. Non è solo l’Italia il problema, come sanno bene gli economisti più avveduti. Cercando di evidenziare una differenza inesistente tra un -0,5% e un +0,5% dovuta, a sentire i vari organi d’informazione, alle improrogabili riforme che ci ostiniamo a non portare avanti, il dibattito pubblico ufficiale propina una percezione della realtà completamente avulsa da ogni fatto reale.

A differenza delle altre crisi economiche del passato, come dicevamo, la peculiarità di quest’ultima è che non può avere una soluzione, stante l’attuale panorama politico. Infatti, altra cosa ben chiara per ogni economista, l’unico modo per far ripartire i famigerati consumi sarebbe un aumento generalizzato del livello salariale, prodotto dal decisivo contributo dell’economia pubblica. Sintetizzando, una serie di politiche keynesiane, le uniche che nel corso del Novecento siano state in grado di risollevare il capitalismo dalle cicliche crisi che ha prodotto nel suo processo di accumulazione. Il problema è che le ricette economiche non sono variabili indipendenti, quanto sempre il risultato di determinate scelte politiche. Nello scorso secolo la presenza di un sistema economico-politico alternativo a quello capitalista rendeva necessario, per il capitalismo, salvaguardare se stesso attraverso misure redistributive, capaci di mediare il conflitto sociale e la conquista di strati sempre maggiori di popolazione alle ragioni dell’alternativa politica. Tagliando con l’accetta, la paura del socialismo imponeva al capitalismo il dovere di mediare tra la necessità di profitto dei singoli capitalisti e quella del consenso del sistema economico. Oggi quello scenario non esiste più, e la mancanza di una valida alternativa politica all’attuale sistema di sviluppo rende ininfluente per il capitalismo cementare consenso attorno ad esso. Il capitalismo oggi non ha il problema dell’egemonia, e senza la paura di perdere quest’ultima non produrrà mai spontaneamente quella mediazione capace di risollevare le sorti produttive delle economie occidentali. In buona sostanza, è divenuto ininfluente per il sistema di sviluppo produrre consenso. Non a caso, il fulcro del discorso politico si è spostato dal concetto di “rappresentanza”, tipicamente otto-novecentesco, a quello di “governo”. Il primo concetto rimanda infatti alla mediazione di interessi diversi, ed è un concetto classico anche all’interno delle dottrine politiche liberali. Il secondo è invece l’espressione di una visione del mondo in cui non è più decisivo mediare fra opposti interessi, ma governare il sistema economico secondo le scelte determinate da tale sistema. Il piano economico non è più definito dalla politica, e quest’ultima viene svalutata a livello di gestione degli interessi produttivi. “Gestione”, “amministrazione”, “governance”, divengono allora le parole chiave di questo cambiamento, che infatti risaltano per la loro assoluta a-politicità e la loro apparente neutralità. Una neutralità di facciata, che nasconde il senso ideologico dominante del capitalismo neoliberista.

Paradossalmente potremmo quindi concludere con questa provocazione, e cioè che saranno solamente le lotte di classe il motore attraverso cui far ripartire anche la produzione capitalista. Se infatti, sulla scorta di Marx, il capitalismo viene definito come un rapporto sociale, questo non può che essere dialettico, cioè basato sul confronto tra le due parti in gioco. Oggi tale confronto non esiste, perché una delle due parti, quella del lavoro salariato, non ha più una sua autonomia politica. E questo fattore inceppa i meccanismi anche dell’altra parte, che senza contraltare si trova impossibilitata a governare se stessa in maniera razionale.