L’ennesimo remake dei bombardamenti in Siria

L’ennesimo remake dei bombardamenti in Siria

 

Ieri notte, con il bombardamento della base aerea siriana di Shayrat, è andato in scena l’ennesimo remake del film sanguinolento che gli Stati Uniti propinano al mondo da 25 anni a questa parte. Con lo sceriffo buono che di fronte all’ennesima atrocità perpetrata dal cattivone di turno decide di passare ai fatti e farsi giustizia da solo, fregandosene dei cavilli e delle lungaggini formali… perché quando ci sono vite da salvare per gli yankee, questo è risaputo, non c’è burocrazia che tenga. Era successo in Iraq, era successo in Jugoslavia, era successo in Afghanistan, era successo in Libia e ieri è toccato alla Siria. La trama non cambia mai. Ormai non stupisce più di tanto nemmeno il ruolo di attore non protagonista assunto in questi anni dall’opinione pubblica mondiale e dalla sinistra imperiale, veri e propri megafoni di quel “terrorismo dell’indignazione” ben descritto da Losurdo. Poco importa dunque se quello bombardato è un paese sovrano membro dell’Onu, se l’attacco è avvenuto unilateralmente e senza una minaccia diretta alla sicurezza statunitense, se non c’è stata autorizzazione o notifica del Consiglio di sicurezza e se nessun tribunale internazionale ha stabilito che ad usare i gas sia stato effettivamente il governo di Damasco. Si è  trattato, come ha dichiarato supinamente il nostro presidente del Consiglio, di “una risposta motivata da un crimine internazionale”. Del resto, dalla caduta del muro di Berlino, giudice, giuria e boia risiedono tutti insieme alla Casa Bianca, con buona pace di chi ancora crede alle favole del Diritto Internazionale.

Se per quanto riguarda lo storytelling non emergono grandi elementi di novità, le cose però cambiano, e molto, dal punto di vista “qualitativo”. Questi ultimi 25 anni sono stati infatti segnati da profonde trasformazioni economiche e geopolitiche che hanno portato al relativo declino dell’unipolarismo statunitense e all’emersione di nuove potenze in competizione tra loro e con gli Usa per la spartizione del pianeta. Per dirla con una formula forse teoricamente poco corretta, ma che rende bene l’idea: si è tornati dall’imperialismo agli imperialismi. Il conflitto siriano ne è una dimostrazione materiale, qualcuno l’ha definito una mini guerra mondiale, altri la prima guerra mondializzata, fatto sta che in quello scenario altamente infiammabile agiscono oggi forze locali, potenze regionali e potenze globali in un confronto che allude a ben altri conflitti. E’ in questo contesto che va dunque interpretato il messaggio scritto sui tomahawk lanciati ieri da Trump. Se dal punto di vista strettamente militare si è trattato di un’operazione tutt’altro che brillante (dei 60 missili da crociera lanciati solo la metà sarebbe arrivata a bersaglio) dal punto di vista diplomatico e politico i destinatari principali della missiva trumpiana erano tre. Il primo, quello di cui oggi tutti i giornali parlano, e che è anche quello più scontato, è la Russia. Negli ultimi anni Mosca, approfittando delle difficoltà politiche e militari statunitensi, è riuscita a recuperare una proiezione globale che va ben oltre le capacità economiche e militari di cui effettivamente dispone. Un piccolo capolavoro diplomatico che l’ha resa di fatto inaggirabile nello scacchiere mediorientale, vero e proprio scrigno energetico planetario. Un’influenza internazionale che evidentemente gli Stati Uniti non vogliono più tollerare.

I secondi destinatari sono le potenze sunnite e Israele, storici alleati degli Usa nell’area, e che Trump sembrerebbe aver voluto rassicurare dopo l’allentamento dei rapporti che aveva fatto seguito alle politiche dell’amministrazione Obama, giudicata troppo favorevole all’Iran sciita. Non a caso ieri Erdogan è tornato a tuonare pubblicamente contro Assad chiedendone la testa, dopo mesi che invece avevano segnato l’avvicinamento a Mosca.

Infine, quella che è probabilmente la principale destinataria dell’avvertimento di Trump e su cui invece pochi commentatori oggi si concentrano nelle loro analisi: la Cina. Il vero competitor per potenzialità economiche, demografiche e militari, insieme alla Ue, dell’imperialismo nordamericano. Ai più attenti non sarà sfuggito un dettaglio tutt’altro che insignificante sul piano diplomatico: con un tempismo quasi sospetto l’attacco è stato condotto mentre Trump cenava con un ignaro Xi Jimping nella sua lussuosa tenuta di Mar-a-Lago in Florida. Il presidente cinese, alleato di Assad, era in visita ufficiale negli Stati Uniti ed è stato così costretto ad assistere alla dimostrazione muscolare del suo ospite. Una “scortesia” diplomatica che è stata oggetto di un’indignata nota dell’Agenzia di Stato cinese e il cui reale significato sarà arrivato forte e chiaro a Pechino.

C’è, in ultimo, un altro aspetto che merita di essere sottolineato e su cui si sofferma oggi un interessante articolo di Mario Platero sul Sole 24 Ore a cui rimandiamo, ovvero la “guerra” interna all’amministrazione statunitense. Stando a quanto scrive il giornalista Trump sarebbe stato “sconfitto” e ad uscire vincitrice sarebbe (per ora) la fazione repubblicana interventista. Da questo punto di vista l’attacco “soprattutto segnala la vittoria di quei ministri e uomini del presidente, Jim Mattis al pentagono, Rex Tillerson al dipartimento di Statio, John Kelly alla Sicurezza Interna e HR McMaster al National Security Council, che rappresentano una rassicurante continuità degli interessi vitali americani”

Al di la delle interpretazioni e delle speculazioni è evidente, però, che la “tendenza alla guerra” di cui scriviamo e parliamo da qualche anno è tutto fuorché un’astrazione teorica.