VISTI PER VOI: “LA PRIMA LINEA”

VISTI PER VOI: “LA PRIMA LINEA”

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Qualche mese fa, quando uscì la notizia che il film “la prima linea” era in lavorazione, molti giornalisti e politici montarono una feroce polemica sui finanziamenti pubblici alla pellicola. Perfino il ministro Bondi, sollecitato dalle associazioni dei familiari delle vittime del terrorismo, venne spinto a prendere posizione minacciando che: “se la copia campione del film prima dell’uscita nelle sale si dovesse distanziare da quanto approvato dalla Commissione cinema, rivelandosi un’opera apologetica del terrorismo, il contributo verrebbe ritirato” (Corriere della Sera 6/3/2009). Evidentemente, come è d’uso in questo paese, il ministro parlava solo per sentito dire e senza conoscere la sceneggiatura, tanto che qualche giorno fa la stessa Commissione per la cinematografia del ministero per i Beni Culturali ha di fatto “benedetto” il film di Renato De Maria sancendo che: “La Commissione ritiene che il film corrisponda alla sceneggiatura approvata e ritiene altresì che, sia le scelte di regia, sia l’ interpretazione dei due protagonisti (Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno, ndr) confermino una linea di sostanziale distacco e di estrema prudenza nell’affrontare il tema doloroso della lotta armata. (…) Un film che non lascia dubbi sul giudizio che di fatto esprime. Una rappresentazione senza eroi, né positivi né negativi, dove lo sguardo vuoto dei protagonisti esprime, con lucida freddezza, la solitudine dell’autoemarginazione. È evidente, quindi, che dal film non emerga alcuna apologia e alcuna giustificazione della violenza terroristica.” Quando siamo entrati in sala eravamo dunque consapevoli del fatto che il film si sarebbe rivelato una “cagata pazzesca“, ma fedeli al principio che non bisognerebbe mai criticare un film “senza prima, prima vederlo” ci siamo comunque sottoposti a questa ora e quaranta minuti di banalità uscendo dal cinema ancora più convinti delle nostre opinioni iniziali. Come abbiamo già avuto modo di raccontare in qualche altro post, crediamo che in Italia viga da tempo un vero e proprio tabù sugli anni ’70 e la lotta armata. E che questa non possa essere raccontata se non attraverso stereotipi abusati e clichè triti e ritriti. I compagni e le compagne che videro la lotta armata come unica strada percorribile verso la rivoluzione sociale non possono essere dipinti che come dei fanatici, dei disadattati, degli spietati assassini completamente scollegati dalla realtà. E poco importa se, tanto per citare dei numeri incontrovertibili, i militanti inquisiti per reati connessi alla lotta armata furono oltre 4000. Poco importa se la parte più consistente di questi fosse costituita da operai (16%) e studenti (16%). Poco importa se furono decine i gruppi che riconobbero nella violenza di classe la levatrice della storia. Nel nostro Paese l’analisi politica di un fenomeno che, piaccia o meno a lorsignori, coinvolse migliaia di proletari, anche se serrata, deve obbligatoriamente lasciare il campo alla psicopatologia criminale, pena l’emarginazione culturale e gli strali dell’establishment. E il film di De Maria, che non si discosta per nulla da quanto prodotto fino ad ora dal culturame italico, non sfugge a questo canovaccio. I due protagonisti anche se belli (come rimproverato da Battista sul Corsera temendo l’emulazione di qualche adolescente), vengono comunque tratteggiati come degli emarginati sociali e politici. Colpevoli, nel loro delirio autistico, non solo degli omicidi politici, ma anche di aver assassinato i sogni di un’intera generazione. Come se la sconfitta di quel ciclo di lotte fosse da addebitare a loro e non a quell’enorme processo di ristrutturazione capitalistica che ridisegnò l’Italia restituendo al Capitale il comando sul lavoro e scomponendo la classe in mille segmenti in competizione tra loro. Tacendo della complicità e della miopia di PCI e sindacato che avallando questi processi finirono col tagliarsi l’erba sotto i piedi. Omettendo di narrare l’altissimo tributo di sangue pagato dai lavoratori sull’altare del dio mercato in nome del profitto. Nella sola provincia di Torino, dal 1980 al 1986 furono oltre 300 gli operai cassintegrati che vennero spinti al suicidio. Ci sono alcuni passaggi nel film che sottolineano in maniera quasi didascalica e fastidiosa questa tesi non proprio originalissima. Ad esempio, poco prima del suo primo omicidio politico, Segio viene spedito dal regista a confrontarsi con il padre, che nelle intenzioni dello sceneggiatore dovrebbe rappresentare la classe operaia, e con un vecchio compagno di Lotta Continua, che invece rappresenterebbe il movimento. Ed entrambe rimproverano a lui ed ai suoi compagni di essersi arrogati il ruolo di prima linea di “un corteo che non era mai esistito”, di non rappresentare nessuno se non se stessi e di essere, appunto, la causa della sconfitta. Se non fosse sufficentemente chiaro il messaggio ci pensano poi alcune scelte stilistiche a chiarire il concetto. La storia si dipana lungo i continui flashback di un compostissimo Scamarcio/Segio  che narra al pubblico le proprie memorie a partire dai servizi d’ordine ed i cordoni nei cortei dei primi anni ’70. La camera, da prima stretta sul viso volutamente inespressivo del protagonista, man a mano si allarga svelando pian piano a chi guarda dove si trovi questa sorta di Norman Bates (sembra la scena finale di Psicho). La gabbia di un tribunale… come a significare: è questa la fine della parabola, si comincia con i cortei autodifesi e si finisce in carcere. Per cui è meglio che ve ne state a casa o, al massimo, vi mettete qualche cosa di viola addosso e scendete per le strade in maniera inoffensiva. Insomma, se vi fidate di noi, risparmiatevi questi soldi.